Le conseguenze a livello internazionale della produzione di petrolio e gas non convenzionali negli Stati Uniti sono un tema che ha inevitabilmente attratto parecchia attenzione negli ultimi anni, data la dimensione del fenomeno.
Sul tema segnalo l’interessante articolo di Nicolò Sartori dal titolo Geopolitical Implications of the US Unconventional Energy Revolution, appena uscito sull’International Spectator.
Per chi non avesse accesso diretto ai contenuti online, la tesi centrale del lavoro è che la rivoluzione del non convenzionale sta portando gli Stati Uniti sulla strada dell’indipendenza energetica, riducendo la dipendenza dalle importazioni e dunque la vulnerabilità rispetto alle dinamiche politiche nei paesi produttori.
Questa tendenza non porterà tuttavia a un disimpegno dal Medio Oriente e, più in generale, dalle dinamiche globali legate all’energia, destinate in ogni caso ad avere ripercussioni sull’economia globale e quindi su quella americana. Ma aumenterà la libertà di manovra statunitense, soprattutto nel quadro più ampio del confronto con l’ascesa cinese e della protezione degli alleati tradizionali, da Israele al Giappone e alla Corea del Sud.
Nel caso del rapporto coi Paesi europei, più che la rivoluzione del non convenzionale, a pesare sarà la crescente perifericità del Vecchio continente. Nonostante la temporanea ribalta concessa dalle vicende ucraine, l’Europa interesserà sempre meno agli USA, soprattutto rispetto alla sempre più importante competizione con la Cina.
Parlando di Occidente, infatti, in prospettiva statunitense si parlerà sempre di più di America, settentrionale ma anche meridionale, dove i giacimenti energetici promettono un utile complemento alla produzione non convenzionale di Washington.
Un sano bagno di realismo quello fornito da Sartori, mentre a Bruxelles si continua con la consueta contemplazione dell’ombelico a oltranza.