Le necessità finanziarie della Repubblica sono note e l’autunno si preannuncia caldo. Tra le misure che il governo metterà in campo per fare cassa è attesa anche la vendita sul mercato di un ulteriore 5% della partecipazione pubblica in Eni ed Enel.
A oggi, la partecipazione di Eni pesa per il 30,1% del capitale, divisa tra Ministero dell’economia (4,34%) e CDP (25,76%). Considerando che la capitalizzazione di Eni è di 69 miliardi, la dismissione varebbe tra i 3 e i 3,5 miliardi.
La partecipazione in Enel pesa invece per il 31,24% del capitale, tutta a controllo diretto del Ministero. Considerando che la capitalizzazione di Enel è di circa 38 miliardi, la dismissione varrebbe circa tra 1,5 e 2 miliardi.
Nel complesso, l’intera operazione dovrebbe portare nelle casse pubbliche circa 5 miliardi di euro, che si affiancherannno ai 2 miliardi arrivati per la partecipazione cinese in CDP Reti, secondo un progetto più volte ribadito dal ministro Padoan.
Dal punto di vista delle imprese, in realtà cambia poco, perché lo Stato resterà in ogni caso sempre l’azionista di riferimento. Giova anche ricordare che a portare sempre più fuori dall’Italia gli interessi delle due multinazionali in realtà non è la composizione dell’azionariato, ma la necessità di investire e crescere sui mercati internazionali per restare competitivi. Anche senza considerare la crisi economica, il mercato italiano è comunque troppo piccolo.
Discorso in parte diverso vale per le reti, che per quanto si espandano all’estero, restano necessariamente centrate sul nostro Paese. E che strutturalmente rappresentano il punto più vulnerabile del sistema energetico nazionale, quello in cui l’aspetto di servizio pubblico resta più forte. E su cui il decisore politico a ragione si sta concentrando maggiormente (la questione partecipazione vs regolazione è poi un altro capitolo, ma lasciamolo da parte).
Siamo in ogni caso di fronte a uno storico cambiamento di paradigma: dopo decenni in cui in Italia Eni e Enel sono stati sinonimi di politica energetica, ora i pronfondi cambiamenti tecnologici, economici e istituzionali degli ultimi venti anni stanno portando a un’inevitabile biforcazione.
Da un lato Eni e Enel, un tempo attori e strumenti della politica, ora sempre più multinazionali private orientate al profitto come tutte le altre. E dalle quali il governo come azionista può tranquillamente uscire. Dall’altro lato la politica energetica, orientata alla salvaguardia della sicurezza nazionale e degli altri obiettivi scelti dal decisore, dalla riduzione delle emissioni alle condizioni di accesso per gli indigenti.
Per il decisore, le sfide a cui guardare sono due. A livello nazionale, quella di accelerare il processo di dismissione nelle partecipazioni a livello locale, che hanno completamente perso la loro ragion d’essere, ossia lo sviluppo delle reti locali, e che ora galleggiano o sono in perdita, afflitte da nanismo e in molti casi da ingerenze politiche.
A livello europeo, la sfida è invece quella di svolgere un ruolo più attivo nell’integrazione delle politiche energetiche europee, allo scopo di promuovere gli interessi del sistema produttivo italiano e di tutelare la sicurezza energetica nazionale. Pena, lasciare che la politica energetica e gli interessi di qualcun altro si travestano da politica europea.
vendere partecipazioni di ENI ed ENEL è una follia.
Azinde sane, ad alta redditività sono oro, e l’oro non si regala.
Soltanto una classe politica cialtrona prende questi provvedimenti. In Francia, non avverrebbe mai.
– “oro non si regala”: certo, infatti sono in vendita.
– “Azinde sane, ad alta redditività”: vero, ma in base a questo principio nazionalizzerebbe tutte le società in attivo? se parliamo di socialismo, parliamo due lingue diverse.
– “In Francia, non avverrebbe mai.”: certo, lo stato francese ha ancora una bella partecipazione in EDF (84,59%), ma è soprattutto giustificato dalla natura strategica dell’industria nuclerare per il sistema produttivo e militare francese. Se guardiamo al gas, in GDF la quota è poco più del 30% e si parla di ulteriori cessioni anche lì. Se poi guardiamo al petrolio, lo stato francese detiene il 4,6% di Total e non ha nessuna golde share (qui, pagine 210-211). Insomma, meno che in Italia.
– “Soltanto una classe politica cialtrona prende questi provvedimenti”: della nostra classe politica non rispondo, ma dei meriti delle politiche di Margaret Thatcher ci sarebbe molto da parlare.
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Più in generale, se ne facciamo un discorso economico, in primo luogo bisogna ricordare che si dismettono le partecipazioni perché dobbiamo rientrare del debito pubblico. E nel conto non c’è solo il differenziale tra l’interesse sul debito e il dividendo delle controllate, ma anche il costo delle eventuali misure alternative per il rientro dal debito.
In secondo luogo, esercitare controllo pubblico laddove ci sono monopoli naturali (e anche in questo caso se ne può discutere) o dove c’è bisogno di fare politica industriale in un certo modo (armamenti, high-tech) ha un senso. In altre parole, lo stato ha senso che sia azionista dove può creare esternalità positive che altrimenti non emergerebbero.
Ma per quei casi in cui la partecipazione è puramente speculativa, la partecipazione dello stato è inefficiente (manca la pressione intrinseca alla creazione di valore) e rischia di generare esternalità negative (v. alla voce assunzioni mirate, sinecure, etc).
Concordo su molto di ciò che scrivi. Tuttavia, va valutato se dal punto di vista finanziario dismettere capitale investito in due società che producono discreti dividendi è sensato nel momento attuale. Due le cose da guardare.
1) E’ il momento giusto per vendere? Il prezzo delle azioni di ENEL e ENI è buono o si corre il rischio di svendere la partecipazione? Guardando, per avere una prima idea, alle serie storiche, si vede che ENI è al momento attuale quotata discretamente (circa 18 euro per azione a fronte di un massimo storico di 28 e di un minimo di 12), mentre ENEL è messa maluccio (circa 4 euro a azione a fronte di un massimo storico di quasi 9 e un minimo di 2,2 euro). Certo, a questa prima impressione bisogna accompagnare un’analisi su quali sono le prospettive future di prezzo di ENEL (penso male) e di ENI (penso più stabili), ma ci dà già l’idea che l’affare che si farebbe non sarebbe forse quello migliore.
2) Bisogna poi vedere alla differenza fra il rendimento positivo che la proprietà di ENI e ENEL genera grazie ai dividendi e il risparmio che si otterrebbe per lo Stato, evitando di indebitarsi per un ammontare pari all’incasso dalla parziale privatizzazione. Agli attuali tassi (circa il 2,4% sul debito decennale) credo che il beneficio netto sia molto modesto, se non addirittura negativo, soprattutto con riferimento a ENI.
Naturalmente queste sono mere considerazioni finanziarie, che non considerano l’ipotesi che una ENI e un’ENEL private possano funzionare meglio e creare più valore aggiunto oppure ancora l’ipotesi che una ENI e un’ENEL interamente private migrino progressivamente via dall’Italia come potrebbe fare FIAT. In quest’ultima ipotesi dubito che per l’Italia e gli italiani si possa nel complesso parlare di un beneficio economico.
Vedo solo ora che avevate già fatto dei commenti analoghi al mio.
Ad ogni modo, la mia conclusione è che al momento ha più senso vendere ENEL che non ENI dal punto di vista finanziario, perchè la prima è a mio modo di vedere un’azienda che farà ancora molta fatica per molto tempo a venire.
Sulle partecipate locali il discorso è in parte diverso. Lì effettivamente bisogna in un modo o nell’altro contenere le pressioni politiche e i fenomeni di clientelarismo (soprattutto).
Certo, la tua valutazione è sensata, però visto che il debito va in ogni caso ridotto, nell’equazione rientra anche il peso delle eventuali misure alternative per incassare 5 miliardi… questo aspetto secondo me è determinante e fa propendere nettamente le bilancia a favore della vendita.
Quanto ai fenomeni di clientelarismo, si dice che si verifichino anche in realtà più grandi.
Sull’ultima tua affermazione in effetti è vero. Touchè.
Quanto al confronto con le misure alternative non so. Io resto dell’idea che un debito va saldato con risparmi sul reddito o con iniziative sul patrimonio solo se queste rendono meno (o ci si aspetta rendano meno) del costo di indebitarsi.
D’altra parte ammetto la mia colpa di essere contro il Fiscal Compact, che rappresenta la principale ragione per cui si ritiene ora nel dibattito politico di dover ridurre il debito pubblio in un momento di recessione economica. 🙂
Lo so che a te JMK piace tanto… 😉
La cessione di quote Eni ed Enel rientra nel piano di abbattimento del debito pubblico. Decide l’azionista come se e quanto dismettere. Questo prescinde da valutazioni industriali. E’ puramente un calcolo politico.
Sulla privatizzazione, che mi sembra un tema molto più interessante di cedere piccole % di quote, ritengo che metterebbe le ali alle due aziende ma che sarà possibile solo se:
Enel cederò la rete elettrica (magari a CdP con l’aiuto dei cinesi);
Eni si toglierà la zavorra del gas e dei contratti e comincierà a fare quello che Descalzi ha in mente, ovvero la Oil Company al massimo allargata al Mozambico e a qualche altro pozzetto di oro blu.
In tal caso viene meno la ragione strategica di possedere quote pubbliche di Enel e Eni. Non vorrai mica che tengano il controllo solo per piccolissimissimi dividendi…(!!!)..:-)
Concordo, anche se per Enel sarà penso più facile che per Eni: la cessione a CDP è politicamente indolore e libera liquidità senza colpo ferire.
Per Eni, credo sia un processo decennale e laborioso, ma la strada mi sembra imboccata con decisione.
Certo piccole % non fanno la differenza, ma sono in ogni caso un passo verso la privatizzazione… a essere maligni, comunque, forse più che i dividendi in meno spaventa l’idea di perdere margine di manovra sulle nomine, piccole e grandi.
Beh..a quel che mi risulta la rete di trasmissine non appartiene già più ad ENEL, la quale, è vero, rimane però in possesso di buona parte delle reti in bassa tensione (distribuzione).
Quanto ai piccolissimi dividendi farei attenzione: solo per ENI si parla di oltre 1 euro per azione all’anno negli ultimi 5-6 anni. Il che significa solo per lo Stato italiano, a grandi linee, circa 0,9-1,5 miliardi di euro all’anno.
Beh, certo, pensavo alla bassa tensione (non obiettavo per realismo, naturalmente io preferirei vederle private e basta).
Quanto a Terna, davo per scontato che fosse già di CDP Reti: l’uscita di Enel risale al 2012! 🙂
Parlavo della valutazione di Enel Distribuzione ovviamente e non di Terna (la valutazione di Enel D dovrebbe essere a spanne superiore ai 5/7 miliardi e pari circa alla RAB, ovvero il valore degli asset riconosciuti ai fini tariffari).
Terna se Dio vuole sono anni che è totalmente unbundlizzata.
Per quanto riguarda i dividendi ero ironico.
Ah, ok. Suggerisco “scorporata” al posto di “unbundlizzata” 🙂