Guai in vista per i Paesi produttori la cui stabilità finanziaria dipende dalle esportazioni di greggio. E che potrebbero vedere diminuire ancora il valore della loro produzione: in questi giorni le quotazioni del Brent sono scese stabilmente sotto i 90 dollari, dopo aver toccato in giugno i 115 dollari ed essere stabilmente sopra i 100 dal 2011.
Tre le cause principali: sul lato dell’offerta, il boom del non convenzionale statunitense. Sul lato della domanda, il rallentamento della crescita globale e il dollaro forte, che penalizza tutti gli importatori (tranne quelli che stampano dollari).
Tanto che la IEA ha tagliato del 20% le proprie stime di crescita della domanda per il 2015. Il calo dei prezzi quindi non sembra essere ancora abbastanza marcato da stimolare un aumento significativo della domanda.
E nemmeno da far scattare una riduzione della produzione OPEC per stimolare una crescita dei prezzi a causa della scarsità. I Paesi del cartello sembrano infatti più impegnati a difendere i volumi di esportazione che non ad alterare i prezzi di mercato, approfittando dei costi di produzione mediamente più bassi rispetto agli altri Paesi.
La situazione potrebbe continuare fino alla soglia degli 80 dollari al barile, quando invece tagliare i volumi per aumentare i prezzi potrebbe tornare a essere profittevole per i Paesi OPEC.
Intanto però a rimetterci sarebbero soprattutto due categorie. Da un lato, i produttori con costi molto alti, come quelli statunitensi e canadesi da non convenzionale. Dall’altro, i Paesi produttori con le finanze pubbliche più a rischio.
In particolare, tra i Paesi OPEC il Venezuela è particolarmente sensibile alla questione, tanto da aver proposto di anticipare il prossimo incontro ufficiale dell’organizzazione, previsto per il 27 Novembre. Le finanze venezuelane rischiano davvero di non riuscire a reggere il colpo di una riduzione dei prezzi, soprattutto con una produzione in costante declino e con 5,2 miliardi di dollari di prestiti in scadenza nel solo mese di ottobre.
Se i sauditi sceglieranno di non reagire, lasciando scendere ancora i prezzi e rendendo strutturale il calo, i problemi potrebbero emergere anche per altri Paesi. A cominciare da Algeria e Russia, che hanno impostato i rispettivi bilanci pubblici per il 2015 sulla base di prezzi intorno ai 100 dollari. E che potrebbero trovarsi a dover fare tagli dolorosi alla propria spesa pubblica, al pari di parecchi Paesi nel Golfo.
E per noi? Dipende. L’impatto sull’Italia sarebbe positivo in quanto Paese importatore (30 miliardi di euro nel 2013), perché la riduzione dei prezzi potrebbe bilanciare il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro. Ma sarebbe anche potenzialmente negativo come Paese esportatore, soprattutto se la crisi dovesse indebolire la domanda di merci italiane nei Paesi del Golfo e in Russia.
Certo, poi a voler proprio cercare di dare un senso più ampio alla posizione saudita, si potrebbe pensare che stia anche mandando un segnale agli Stati Uniti, rei di un eccessivo avvicinamento all’Iran.
Interessante anche il commento di Paul Sankey, riportato da FT. L’analista di Wolfe Research indica il rischio che i prezzi bassi spingano fuori produzione troppa produzione troppo velocemente. Creando così le condizioni per un rimbalzo dei prezzi alla prima accelerazione della domanda.
In altre parole, i sauditi potrebbero tenere le quotazioni a 80 per un po’ e trovarsi alla fine con quotazioni a 150. Male per loro, ma soprattutto per noi.
Post interessante, ma vorrei chiederti un paio di cose: perchè il dollaro forte dovrebbe penalizzare i paesi importatori?
Seconda cosa: relativamente al tuo secondo commento: non credo che un prezzo basso del petrolio per alcuni mesi possa alterare di molto la produzione. Una volta fatto l’investimento in ricerca e sviluppo, i costi marginali sono tendenzialmente molto bassi, per cui non credo che la produzione venga molto ridotta. Gli unici produttori che potrebbero decidere per convenienza economica di pompare fuori meno petrolio nei prossimi mesi sono quelli che usano il non convenzionale, dove ci sono costi operativi molto maggiori o dove si devono continuamente scavare nuovi piccoli pozzi o fara nuove fratturazioni idrauliche.
Il problema del dollaro forte per gli importatori dipende dal fatto che gli acquisti sui mercati internazionali sono generalmente deniminati in dollari: se l’euro si indebolisce, per chi opera in euro acquistare petrolio diventa più caro, a prezzi invariati.
Ah, adesso ho capito meglio il malinteso.
L’idea che volevo esprimere è che un dollaro forte penalizza chi deve importare prodotti denominati in dollari. D’altra parte, tra le cause della discesa del prezzo del greggio denominato in dollari c’è proprio l’apprezzamento del dollaro rispetto ad altre importanti valute internazionali come l’euro. Penso, ma bisognerebbe fare i conti, che la riduzione del prezzo in dollari del petrolio (dell’ordine del 10-15% dall’estate), sia non molto superiore al deprezzamento dell’euro rispetto dal dollaro (dell’ordine del 10% nell’ultimo paio di mesi). In questo senso, il barile di petrolio pagato in euro non è sceso molto.
Quanto al secondo punto che sollevavo ieri l’idea è questa. I produttori di NON convenzionale, concentrati soprattutto negli USA, hanno la necessità di effettuare continuamente investimenti in nuova fratturazione idraulica per sopperire al rapido declino produttivo dei pozzi di non convenzionale (mi pare che la producibilità di un pozzo di non convenzionale si riduca della metà in uno o due anni). Ne consegue che se in questi mesi il prezzo del greggio si riducesse stabilmente sui 80-90 $/barile, questi produttori ridurrebbero rapidamente le loro nuove perforazione e nel giro di qualche mese la produzione USA potrebbe calare di vari punti percentuali.
Allo stesso tempo, se l’anno prossimo il prezzo del greggio tornasse rapidamente a salire, questi stessi produttori potrebbero con altrettanta rapidità tornare a espandere la loro produzione.
E’ il bello dei settori con costi operativie elevati e investimenti fissi proporzionalmente contenuti: modificano la produzione molto velocemente alle varie fluttuazioni di prezzo. Questa cosa non succede nella stessa misura per settori, come il petrolio convenzionale, dove i costi operativi sono trascurabili e gli investiementi in esplorazione e sviluppo iniziale sono in proporzione molto maggiori. Ai produttori operanti in questi ultimi comparti, una volta avviata la produzione, conviene pompare al massimo, anche se il prezzi, e dunque il loro margine di guadagno, cala significativamente.
Quello che dici rispetto al non convenzionale è assolutamente vero. Però resta il fatto che, a prezzi scesi, centinaia di aziende di piccole dimensioni non avranno la solidità finanziaria per stare in piedi, creando dunque in ogni caso dei contraccolpi negativi per l’economia statunitense.
Ultima cosa e poi mi taccio: a qualche Paese OPEC o alla Russia forse converrebbe investire in capacità di stoccaggio di petrolio, così da poter meglio modulare le proprie vendite di greggio, un po’ come fa a volte l’Arabia Saudita.