Nei giorni scorsi il Governo italiano ha adottato un decreto legge, che estende e potenzia le norme fiscali e gli standard tecnici a favore della ristrutturazione e dell’efficientamento energetico degli edifici.
Si tratta di una norma che può sicuramente incentivare un uso migliore dell’energia da parte del settore residenziale, ridurre le bollette delle famiglie e smuovere il settore edile, mai come ora in profonda crisi (non si capisce però come mai, se produce tutti questi benefici, il meccanismo di detrazioni non sia reso permanente, anzichè dover aspettare tutti gli anni la primavera per approvare la sua proroga).
Dal punto di vista del sistema Paese, questa scelta di policy può sicuramente ridurre le importazioni energetiche, ridimensionare l’impatto ambientale delle attività umane e accrescere la sicurezza energetica. Essa tende però anche a rendere più urgente affrontare un problema di cui l’industria energetica si sta lamentando da mesi: l’eccesso di capacità, sia nell’elettricità che nel gas.
In un periodo di crescita zero più efficienza energetica significa infatti avere stabilmente meno domanda di energia e quindi prezzi e quantità in calo, come testimoniano le centrali a gas operanti per poche ore al giorno e i gasdotti mezzi vuoti.
Forse, è giunta l’ora di chiedersi se abbia senso ancora per il Paese costruire nuove infrastrutture di adduzione dell’energia e nuove centrali elettriche, indipendentemente dal fatto che siano a rinnovabili o a combustibili fossili.
Concordo, l’impatto dell’efficienza energetica ha un ruolo importante nella SEN ma è discusso molto poco.
La SEN prevede un risparmio al 2020 di 20 Mtep: decisamente parecchio, anche se si tratta di un obiettio plausibile.
Vedo però un rischio: che focalizzarsi troppo sul presente e sul calo strutturale dei consumi nel residenziale ci distragga dal medio-lungo periodo e dall’idea di ripresa economica che ci si pone come problema politico.
Mi spiego: quando la ripresa arriverà, vorremo ancora essere un’economia con una quota significativa di manifatturiero? Se la risposta è positiva, i consumi non potranno che riprendere rapidamente e per avere costi competitivi non potranno che riguardare una quota significativa di fossili.
Il rischio è dunque quello di basarsi su una situazione attuale di stagnazione e di consumi ridotti da parte delle attività produttive per immaginare il futuro e il fabbisogno di importazione.
Anche questo è indubbiamente vero. Fatico però a pensare che la cosa diventi rilevante prima del 2020.
Assumendo tassi di crescita della nostra economia dell’1% annuo dal 2014, serviranno almeno 5-6 anni per tornare ai livelli di reddito del 2007 (massimo storico). Inoltre, contando la maggiore efficienza energetica acquisita, la domanda di energia non dovrebbe tornare ai livelli record del 2006 prima di 9-10 anni (se mai lo farà).
La necessità di nuova capacità è quindi qualcosa di incerto e di non immediato. Forse, più che puntare su nuova capacità di adduzione o di generazione, sarebbe meglio cercare di accrescere la nostra capacità di accumulo (elettrico) e di stoccaggio (del gas), che potrebbe calmierare di più i prezzi e minimizzare la svalutazione del capitale attualmente investito in centrali elettriche e gas/elettro-dotti.
In realtà l’unica forma di accumulo elettrico su vasta scala sensato è rappresentato dai bacini idroelettrici… All’attuale stato tecnologico, il resto è investimento in ricerca avanzata, non di certo uno strumento in grado di ridurre i costi della fornitura elettrica al consumatore finale.
Idem per il gas: l’aumento puro della capacità di stoccaggio difficilmente avrebbe un effetto deflattivo sui prezzi finali, perché in ogni caso siamo in eccesso di offerta e stoccare per sfruttare i differenziali stagionali di prezzo non è conveniente.
Al massimo, l’aumento di capacità di stoccaggio è una misura di sicurezza. Su quel fronte, qualche effetto positivo lo si potrebbe avere ritoccando le norme per l’utilizzo della capacità, ma quello è un altro discorso.