La penetrazione delle rinnovabili nel paniere elettrico europeo negli ultimi anni, oltre a causare un enorme trasferimento di ricchezza nella casse dei percettori dei sussidi, ha amplificato il rischio – insito nei mercati liberalizzati – di un’insufficienza di investimenti in capacità di generazione disponibile.
In un quadro di incertezza, infatti, gli investitori di mercato possono non assumersi tutti gli oneri finanziari necessari a sviluppare e mantenere abbastanza capacità di generazione da soddisfare sempre la domanda finale, perché rischierebbero di ritrovarsi con degli impianti sotto-utilizzati e quindi anti-economici. Una condizione insostenibile se non si può scaricare direttamente sui consumatori il loro costo, come avveniva in regime di monopolio.
Allo stesso tempo, però, la disponibilità di energia elettrica in modo costante e affidabile è l’aspetto in assoluto più delicato per la sicurezza energetica delle società industrializzate, altamente dipendenti dall’elettricità sia per i processi produttivi, sia per gli apparati di telecomunicazioni.
Per questo, in un mercato liberalizzato è necessario che la collettività si faccia carico di remunerare degli operatori per mantenere operativi e disponibili impianti sufficienti a garantire che ci sia sempre capacità di riserva pronta a entrare in funzione per sopperire all’instabilità di altri produttori, in particolare di quelli da rinnovabili.
Il 16 dicembre scorso la Gran Bretagna è stato il primo Paese UE a tenere un’asta della capacità di generazione, lo strumento più efficace per allocare in modo efficiente i sussidi necessari a mantenere livelli minimi di capacità di generazione.
Su questo tema segnalo l’ottimo post di Simona Bendettini, The British capacity market: a hidden déjà vu?, che inaugura le attività dell’Osservatorio Energia dell’ISPI, l’ISPI Energy Watch.