Titolo forse un po’ roboante per un interessantissimo paper di Leonardo Maugeri, Oil: The Next Revolution. The Unprecedented Upsurge of Oil Production Capacity and What It Means For The World, pubblicato dalla Harvard Kennedy School.
Tra i punti chiave del lavoro, Maugeri sottolina alcune conclusioni:
- il petrolio non sta finendo, i problemi nel suo sfruttamento non sono sotto la superficie, ma sopra (leggi: politici).
- la nuova produzione nel corso del decennio si concentrerà in Iraq, Stati uniti, Canada (e Venezuela) e ogni problema politico in uno (si indovini quali) di questi Paesi potrebbe avere conseguenze destabilizzanti.
- la produzione non convenzionale negli Stati Uniti non è una bolla e probabilmente si estenderà sempre più (con tempi e modi diversi) agli altri Paesi.
- a livello aggregato la produzione convenzionale sta crescendo, ma in alcune aree (Nord America e Mare del Nord) sta diminuendo in modo irreversibile.
- l’epoca del “cheap oil” è definitivamente tramontata, ma è non è ancora prevedibile a quale livello si attesterà il prezzo e le tecnologie non convenzionali potrebbero essere determinanti nel contenerlo.
- il mercato petrolifero resterà molto volatile fino almeno al 2015. Dopo il 2015, i grandi progetti attualmente in cantiere dovrebbero aumentare la capacità produttiva mondiale, provocando una contrazione duratura dei prezzi (con un caveat: i consumi mondiali devono crescere meno dell’1,6% annuo per tutto il decennio).
- gli scontri tra l’industria petrolifera e i gruppi ambientalisti rischiano di rallentare lo sviluppo di nuovi progetti (in Occidente) e sarebbe necessaria una rivoluzione nelle tecnologie di riduzione delle emissioni e dell’impatto ambientale.
- in seguito all’aumento della produzione non convenzionale, l’Asia diventerà sempre più il mercato di riferimento per la produzione petrolifera mediorientale, rendendo la Cina un protagonista della politica nella regione.
- la dipendenza dell’emisfero occidentale (leggi: Nord America) dalle importazioni petrolifere si ridurrà, ma non isolerà gli Stati Uniti dalle dinamiche dei mercati mondiali.
- la crescita del non convenzionale indirizzerà le attività del’industria petrolifera verso l’emisfero occidentale per i prossimi decenni.
Buona lettura.
Un lavoro veramente molto interessante.
tu lo sai bene, vero? 😉
Comunque, devo dire che è molto America-centrico (necessariamente, visto l’editore), soprattutto nell’ossessione tutta statunitense per l’indipendenza energetica. Certo, non dipendere da nessuno è un’idea affascinante e militarmente ne capisco il fondamento, ma il livello di apertura dell’economia americana è tale che la disponibilità di energetica è problema impossibile da pensare come questione nazionale (a meno di non ridursi come la Corea del Nord). Questo senza considerare che anche se gli americani non importassero nemmeno una goccia di petrolio mediorientale, in ogni caso sarebbero colpiti dagli effetti sul mercato globale – diretti e indiretti – di qualunque instabilità nella regione.
Sul punto, il mio teorico di riferimento resta Jon Stewart.
Gentile Matteo, concordo in toto. In merito all’indipendenza energetica degli Stati Uniti aggiungo solo che per Washington un stimolo è anche il tentativo di ridurre la dipendenza (vulnerabilità) strategica dal Medio-Oriente.
Senza dubbio, anche se credo che la questione mediorientale fornisca al contempo uno stimolo nel senso opposto. Mi spiego: più consistente è l’interscambio, maggiori sono le possibilità di coinvolgimento e cooperazione coi Paesi del Golfo. Viceversa, una riduzione delle importazioni (magari in parallelo a un’ulteriore espansione delle forniture alla Cina) ridurrebbe il peso economico degli Stati Uniti nell’area, riducendone anche la libertà di manovra e le opzioni politiche.
Hai ragione e difatti è proprio questa una delle complessità strategiche che Washington dovrebbe risolvere.