Le sanzioni spingono la Russia verso la Cina, ma l’Europa sta a guardare

FT - Sanctions help Russia overcome its China paranoiaLe sanzioni alla Russia decise dagli Stati Uniti e appoggiate senza entusiasmo dai governi europei continuano a fare danni, senza sortire effetti particolarmente positivi sul terrreno.

Come noto, le nuove sanzioni colpiscono gli operatori russi dell’energia a livello finanziario, riducendo drasticamente le loro possibilità di ricevere finanziamenti dagli istituti finanziari occidentali. Nessuna restrizione invece sui flussi di esportazione, troppo importanti sia per la Russia sia per i Paesi europei perché entrino nel gioco delle sanzioni.

Eppure, qualche conseguenza strutturale le sanzioni la stanno avendo. E si tratta di cattive notizie per l’Occidente, forse persino più che per la Russia. Limitato nella cooperazione coi tradizionali partners europei, il governo di Mosca si rivolge sempre di più a quello di Pechino.

Sebbene le notizie abbiano un timing e alcuni dettagli che sanno di propaganda, resta il fatto che il settore energetico russo si sta legando sempre di più alle controparti cinesi. Alla base certamente c’è un dato geografico: il mercato più vicino alle riserve della Siberia orientale è la Cina. Ma non è un dato determinante, soprattutto per il petrolio (in fondo anche l’Ucraina è più vicina della Germania).

E non si tratta di una novità di questi mesi: i cinesi hanno comprato una quota di Udmurtneft (2006), finanziato Transneft (2009), sono entrati in Yamal (2013). E naturalmente hanno siglato a maggio un accordo trentennale con Gazprom per il gas siberiano.

Ora è arrivata l’offerta russa di ingresso cinese in Vankorneft, una controllata di Rosneft che opera una serie di campi in Siberia orientale. L’eventuale accordo con CNPC avrebbe però un chiaro elemento di novità: Vancor ha un portafoglio di campi onshore, che non comportano particolari rischi o sfide tecnologiche. Insomma, a differenza di tutti gli altri casi di ingresso straniero nell’upstream russo, l’ingresso straniero non riguarderebbe campi marginali o tecnologicamente problematici.

Un trattamento di favore riservato al governo cinese, che potrebbe precludere all’annuncio di ulteriori iniezioni di capitali cinesi, magari sotto forma di prestiti a tasso agevolato coperti da contratti di fornitura di lungo periodo. Indispendabili per compensare gli effetti delle sanzioni e per dare un segnale chiaro ai governi, agli istituti finanziari e alle imprese occidentali, che nel frattempo continuano a perdere importanti occasioni di investimento. Con conseguenze che si trascineranno per decenni.

Nuove sanzioni alla Russia, ma la tregua è (forse) alle porte

The Telegraph - Kiev and separatists met in Minsk for Ukraine peace talksIl summit Nato è in chiusura e le pressioni statunitensi sui partner europei hanno portato a nuove sanzioni, che colpiranno il settore petrolifero sul piano finanziario. Nessuna conseguenza diretta invece per le esportazioni di petrolio.

E naturalmente nessuna misura colpirà il settore del gas, grazie all’intervento dei governi europei più coinvolti negli scambi con la Russia, Germania e Italia in primis. Le colombe europee vincono anche sul fronte militare: la Nato infatti non fornirà armi all’Ucraina.

La necessità di riempire gli stoccaggi ucraini prima dell’inizio dell’inverno comincia a farsi sentire, mentre sul terreno si sta assistendo da mesi ad avanzate dell’esercito ucraino e contrattacchi dei ribelli, in una situazione di sostanziale stallo. Proprio l’impossibilità di arrivare a una vittoria sul campo ha spinto il governo di Kiev ad accettare i colloqui coi separatisti a Minsk, che secondo indiscrezioni potrebbero portare a un cessate il fuoco già alle 14:00 di oggi.

La situazione sul terreno è instabile e la tregua potrebbe essere davvero solo temporanea, ma è sicuramente negli interessi sia russi sia europei, tanto che le pressioni su Kiev potrebbero avere la meglio.

Di certo resta la determinazione di Mosca non abbandonare i ribelli e consentire una completa vittoria di Kiev, che aprirebbe le porte a un percorso di ingresso del Paese nell’Ue e soprattutto nella Nato. Evitare questo risultato e trovarsi l’alleanza statunitense a poche centinaia di km da Mosca è la vera linea rossa su cui nessun governo russo può cedere.

In fondo, probabilmente ha ragione Mearsheimer: la crisi in Ucraina è (anche) colpa dell’Occidente.

Armi, acciaio e malattie

Jared Diamond - Armi, acciaio e malattieStaccare ogni tanto dall’attualità aiuta il senso critico, oltre che l’umore. Soprattutto se si parte per un viaggio nella storia dell’umanità, della sua evoluzione e del suo incredibile rapporto con l’ambiente.

E Jared Diamond è un’ottima guida: prosa gradevole, esperienza sul campo e rigore scientifico, per il miglior libro di geopolitica che abbia mai letto. Anche perché, tra l’altro, la parola non compare mai.

Eppure la tesi principale del libro è che siano state proprio le caratteristiche geografiche a determinare i tempi e i modi dello sviluppo delle diverse civiltà. Disporre di piante e animali addomesticabili, di condizioni ambientali adatte a diventare sedentari e di contatti con altre popolazioni da cui apprendere sono stati i fattori che hanno reso le società umane di Eurasia, America, Africa e Oceania tanto diverse tra loro.

Cosa c’entra l’energia? C’entra eccome, perché a dare un vantaggio determinante alle civilità, dall’Europa alla Cina, è stata la possibilità di disporre di enormi quantità di energia sotto forma di animali. Bovini ed equini hanno infatti consentito un aumento di produttività tale da permettere poi gli altri grandi passi avanti verso la diversificazione del lavoro, l’evoluzione tecnologica, la complessità sociale e infine la supremazia militare.

Una lettura consigliata.


Jared Diamond
Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni
Einaudi, 2014, 400 pp.
ISBN/EAN: 978-88-06-21922-2 (cartaceo)
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L’Internet delle cose nel settore oil&gas

Rigzone - Internet of Things Technologies Could Transform Oil, Gas IndustrySegnalo un approfondimento di Rigzone dedicato all’impatto sul settore oil&gas dell’Internet delle cose, ossia il fenomeno per cui anche gli oggetti sono online con un indirizzo univocono e possono scambiarsi informazioni, aggregarle e – se programmati – agire di conseguenza. Un po’ come i sensori del traffico che avvertono il navigatore di cambiare il percoso sulla mappa, per avere un esempio, ma magari con in più il fatto che a guidare la macchina sia direttamente il navigatore.

Per il settore petrolifero, le potenzialità sono enormi. L’Internet delle cose è un’evoluzione dei sistemi SCADA, ossia l’insieme dei sensori nelle macchine coinvolte nei proocessi produttivi, diffusi ormai da decenni.

Il primo e più evidente impatto è la riduzione della necessità di personale qualificato in aree remote, con la conseguente riduzione dei costi. In secondo luogo, avere sensori al posto degli umani riduce i rischi di errori e consente di raggiungere livelli di sicurezza più alti per il personale. Infine, l’utilizzo di sistemi sempre più “intelligenti” e automatizzati consente di aumentare l’efficienza dell’intera produzione.

Oltre alla capacità dei sensori di dialogare e interagire tra loro, a distinguere la diffusione dell’Internet delle cose c’è la capacità dei sistemi di elaborare informazioni per creare una mappatura di fenomeni complessi e reagire per adattarsi senza bisogno di intervento umano diretto.

Per raggiungere queste capacità è tuttavia indispensabile un’enorme potenza di calcolo e di gestione dei flussi di dati che si sta raggiungendo solo ora grazie al cloud computing. Le prospettive di miglioramento della produttività sono enormi e largamente inesplorate, un po’ come quando furono introdotti i motori a vapore o l’elettricità nelle attività industriali. Questa volta l’industria petrolifera avrà bisogno di qualche ingegnere in meno e di qualche informatico in più.

Un’ultima considerazione: la diffusione dell’Internet delle cose porta con sé anche una nuova generazione di rischi per la sicurezza. La completa digitalizzazione delle operazioni e dei meccanismi di controllo apre infatti la strada a potenziali intrusioni non rilevate, con sottrazione di informazioni o azioni ostili in remoto che possono perfino sfuggire completamente alle capacità di monitoraggio umane. Aziende e servizi di sicurezza dovranno fare i conti tempestivamente con questa realtà, prima di doverne pagare le conseguenze sul campo.

L’allows oil and gas companies to manage and gather data from operations in remote environments while eliminating the need for workers in these environments. – See more at: http://www.rigzone.com/news/oil_gas/a/134738/Internet_of_Things_Technologies_Could_Transform_Oil_Gas_Industry/?all=HG2#sthash.OAeFWRli.dpuf

allows oil and gas companies to manage and gather data from operations in remote environments while eliminating the need for workers in these environments. – See more at: http://www.rigzone.com/news/oil_gas/a/134738/Internet_of_Things_Technologies_Could_Transform_Oil_Gas_Industry/?all=HG2#sthash.OAeFWRli.dpuf
Internet of Things Technologies Could Transform Oil, Gas Industry – See more at: http://www.rigzone.com/news/oil_gas/a/134738/Internet_of_Things_Technologies_Could_Transform_Oil_Gas_Industry/?all=HG2#sthash.OAeFWRli.dpuf

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Russia: i pessimi consigli dei falchi

FT - Call Putin’s bluff – he will not cut off Europe’s gasIn un articolo di ieri dal titolo Call Putin’s bluff – he will not cut off Europe’s gas, Matthew Bryza cerca di argomentare a favore di un irrigidimento europeo su posizioni antirusse. Semplificando, l’idea è che la Russia dipenderebbe dalle esportazioni di gas verso l’UE, ma che i Paesi europei potrebbero fare a meno del gas russo e quindi dovrebbero “chiamare” il bluff di Putin.

A parte che Putin non sta tentando nessun bluff perché né lui né Gazprom hanno mai minacciato un’interruzione delle forniture ai clienti europei. E non avrebbero ragione di farlo, visto che si tratta di partner affidabili e di lungo periodo, che stanno facendo giusto finta di sanzionare la Russia e coi quali gli scambi commerciali continuano con mutuo beneficio.

Per Bryza però gli Stati europei dovrebbero seguire la linea dura e prepararsi a uno scontro, adottando tre misure. Una più assurda dell’altra.

Innazitutto, la Commissione Europea dovrebbe imporre un riempiemento al 100% degli stoccaggi europei al più presto. Il che pone due problemi: il primo è “chi paga?”, il secondo è “da dove viene il gas?”. La risposta sarebbero che i contribuenti europei a pagare con le tasse un eccesso di scorte di gas (prevelentemente russo) per prepararsi a un taglio del gas (russo).

Tralasciando che Bryza confonde i dati delle esportazioni russe in Europa con quelli della sola UE, si pone innanzitutto il problema che l’erogazione giornaliera da stoccaggio ha dei limiti e non basta avere maggiori volumi complessivi sottoterra per rimpiazzare il flusso giornaliero dei gasdotti dalla Russia.

La seconda misura è ancora più insensata: si tratterebbe di “identificare fornitori di GNL” per fornire i volumi in più, da sommare alle erogazioni da stoccaggio per impiazzare tutto il gas russo [sic!]. Il tutto, sulla carta sarebbe facile: basta sfruttare l’enorme capacità di rigassificazione inutilizzata.

Peccato che la domanda da soddisfare sarebbbe in Europa centro-orientale e i terminali inutilizzati si trovino soprattutto sulle coste spagnole e britanniche. E che le diverse parti d’Europa non siano collegate da una rete di gasdotti in grado di trasportare il gas. Insomma, basterebbe inondare di gas Spagna e Regno Unito per scaldare gli slovacchi. Magia delle medie.

La terza misura, per rispondere a una domanda di prima, sarebbe quella di coprire i costi derivanti dalla questa strategia con un bell’indebitamento europeo, stimato (come?) in 20 miliardi di euro. Come se l’economia europea avesse bisogno di essere depressa ancora un po’.

L’interesse europeo e italiano stanno decisamente altrove, su tutta la linea. Ma gli interessi che stanno a cuore a Bryza non sono di certo i nostri.

Privatizzazioni Enel e Eni? Un processo inarrestabile

La Repubblica - Privatizzazioni, lo Stato si stacca dai colossi Eni ed EnelLe necessità finanziarie della Repubblica sono note e l’autunno si preannuncia caldo. Tra le misure che il governo metterà in campo per fare cassa è attesa anche la vendita sul mercato di un ulteriore 5% della partecipazione pubblica in Eni ed Enel.

A oggi, la partecipazione di Eni pesa per il 30,1% del capitale, divisa tra Ministero dell’economia (4,34%) e CDP (25,76%). Considerando che la capitalizzazione di Eni è di 69 miliardi, la dismissione varebbe tra i 3 e i 3,5 miliardi.

La partecipazione in Enel pesa invece per il 31,24% del capitale, tutta a controllo diretto del Ministero. Considerando che la capitalizzazione di Enel è di circa 38 miliardi, la dismissione varrebbe circa tra 1,5 e 2 miliardi.

Nel complesso, l’intera operazione dovrebbe portare nelle casse pubbliche circa 5 miliardi di euro, che si affiancherannno ai 2 miliardi arrivati per la partecipazione cinese in CDP Reti, secondo un progetto più volte ribadito dal ministro Padoan.

Dal punto di vista delle imprese, in realtà cambia poco, perché lo Stato resterà in ogni caso sempre l’azionista di riferimento.  Giova anche ricordare che a portare sempre più fuori dall’Italia gli interessi delle due multinazionali in realtà non è la composizione dell’azionariato, ma la necessità di investire e crescere sui mercati internazionali per restare competitivi. Anche senza considerare la crisi economica, il mercato italiano è comunque troppo piccolo.

Discorso in parte diverso vale per le reti, che per quanto si espandano all’estero, restano necessariamente centrate sul nostro Paese. E che strutturalmente rappresentano il punto più vulnerabile del sistema energetico nazionale, quello in cui l’aspetto di servizio pubblico resta più forte. E su cui il decisore politico a ragione si sta concentrando maggiormente (la questione partecipazione vs regolazione è poi un altro capitolo, ma lasciamolo da parte).

Siamo in ogni caso di fronte a uno storico cambiamento di paradigma: dopo decenni in cui in Italia Eni e Enel sono stati sinonimi di politica energetica, ora i pronfondi cambiamenti tecnologici, economici e istituzionali degli ultimi venti anni stanno portando a un’inevitabile biforcazione.

Da un lato Eni e Enel, un tempo attori e strumenti della politica, ora sempre più multinazionali private orientate al profitto come tutte le altre. E dalle quali il governo come azionista può tranquillamente uscire. Dall’altro lato la politica energetica, orientata alla salvaguardia della sicurezza nazionale e degli altri obiettivi scelti dal decisore, dalla riduzione delle emissioni alle condizioni di accesso per gli indigenti.

Per il decisore, le sfide a cui guardare sono due. A livello nazionale, quella di accelerare il processo di dismissione nelle partecipazioni a livello locale, che hanno completamente perso la loro ragion d’essere, ossia lo sviluppo delle reti locali, e che ora galleggiano o sono in perdita, afflitte da nanismo e in molti casi da ingerenze politiche.

A livello europeo, la sfida è invece quella di svolgere un ruolo più attivo nell’integrazione delle politiche energetiche europee, allo scopo di promuovere gli interessi del sistema produttivo italiano e di tutelare la sicurezza energetica nazionale. Pena, lasciare che la politica energetica e gli interessi di qualcun altro si travestano da politica europea.