Meno benzina, più tasse

Consumi di benzina e gasolio in Italia e gettito fiscale (elaborazione di Matteo Villa su dati UP)Negli ultimi quindici anni, i consumi di gasolio e benzina in Italia sono progressivamente diminuiti, sia per maggiore efficienza, sia per effetto della crisi.

Un bel problema per lo Stato, che notoriamente raccoglie circa il 70% del prezzo alla pompa. In totale, oltre 40 miliardi di euro all’anno, sufficienti a coprire le spese della difesa, dell’amministrazione della giustizia, della sicurezza pubblica e di tutta l’amministrazione centrale dello Stato.

Per evitare che il calo strutturale dei consumi si traducesse in un calo strutturale permanente del gettito, negli ultimi anni il legislatore ha proceduto ad aumentare progressivamente la pressione fiscale, compensando la perdita di gettito. Un’operazione che con ogni probabilità continuerà in futuro.

I dettagli sono analizzati da Matteo Villa in un post per l’ISPI Energy Watch, ripreso anche da SQ.

Greggio: è iniziata la risalita?

Oil-price.net - Crude Oil and Commodity PricesIl prezzo di un barile di Brent è tornato sopra quota 55 dollari, dopo essere stato ampiamente sotto i 50 dollari nell’ultima parte di gennaio. La domanda è naturale: siamo di fronte a una risalita?

Ci sono segnali che vanno in direzioni opposte, come spiega FT. Per cominciare, diversi sono gli indizi che portano nella direzione di un aumento immediato dei prezzi.

Sul lato dell’offerta, il numero di impianti di trivellazione in funzione negli Stati Uniti ha iniziato a contrarsi, perché i giacimenti non convenzionali hanno bisogno di trivellazioni continue e dunque i produttori indipendenti che li sfruttano posso rispondere più rapidamente alle variazioni di prezzo sospendendo le operazioni.

Peraltro, anche gli investimenti in produzione convenzionale stanno rallentando drammaticamente: Royal Dutch Shell, ConocoPhilips e BP sono le majors che hanno annunciato i tagli più grossi, ma la tendenza a sospendere i progetti più costosi è generalizzata.

Sul lato dell’offerta, la domanda sta iniziando a crescere in risposta ai prezzi più bassi, soprattutto dove i prodotti petroliferi sono meno tassati, ossia negli Stati Uniti. La domanda statunitense di benzina ha infatti superato in media i 9 milioni di barili al giorno per tutto il mese scorso.

Infine, a confermare (forse) le aspettative di rimbalzo sono arrivate le dichiarazioni del segretario generale dell’OPEC, Abdalla El-Badri, che ha detto di recente che le quotazioni petrolifere “maybe prices have reached a bottom”. Sibillino, ma per alcuni analisti potrebbe essere un appiglio.

Tuttavia, anche i segnali di una possibile ripresa della discesa dei prezzi non sono trascurabili. In primo luogo, la produzione interna statunitense continua a crescere per effetto degli investimenti dell’anno scorso e la settimana scorsa ha raggiunto il livello di 9,2 milioni di barili al giorno, il più alto degli ultimi 31 anni.

Inoltre, dai produttori OPEC continua a non arrivare alcun segno di riduzione dei volumi e addirittura i due membri africani, Angola e Nigeria, hanno aumentato la produzione per cercare di restare a galla finanziariamente, portando a gennaio la produzione complessiva del cartello a 30,37 milioni di barili al giorno.

Sul lato della domanda, ci sono parecchi dubbi sul ritmo della crescita globale, soprattutto dopo che l’IMF ha tagliato di 0,3 punti percentuali le previsioni di crescita per il 2015 e il 2016, rispettivamente a 3,5% e 3,7%.

Qualche segnale di sfiducia arriva infine anche dai mercati finanziari, dove gli hedge funds stanno scommettendo su un nuovo ribasso del WTI, esponendosi come non si vedeva dal novembre 2010.

Insomma, troppo presto per tirare le conclusioni. Ma se il prezzo dovesse ripartire, potremmo presto trovarci presto a discutere dei downsides of expesive oil.

Mercato italiano del gas: un doloroso declino

Nel 2014, i consumi di gas italiani sono diminuiti del 12% rispetto al 2013, passando da 67,9 a 60 Gmc. Per i mercato italiano, si è trattato del quarto anno consecutivo di contrazione: nel 2010, l’ultimo anno col segno più, il fabbisogno era stato di 80,8 Gmc.

Nel mezzo, la crisi del termoelettrico, schiacciato tra la contrazione dei consumi elettrici e i sussidi alle rinnovabili. Nel 2014 ha poi pesato, non poco, un inverno statisticamente anomalo, con temperature sopra la media e consumi per riscaldamento in crollo verticale.

IEW - I consumi italiani di gas (2005=100) e la variazione annuale assolutaSul tema, segnalo un mio contributo dal titolo The Italian gas market: a painful decline, pubblicato sul blog ISPI Energy Watch.

Il calo delle quotazioni del greggio: un bene o un male per i paesi importatori?

petrolioStamattina ho letto sul Sole 24 Ore un lungo articolo in cui si riportavano le opinioni di vari analisti finanziari sugli effetti del calo delle quotazioni petrolifere.

Data l’entità della variazione del prezzo (-60% circa se calcolato in dollari, -45% circa se calcolato in euro) e l’importanza della commodity (anche perchè rappresenta un riferimento di prezzo per altre fonti di energia), l’impatto sul quadro macro-economico può essere significativo, sia in positivo che in negativo.

Nell’articolo si sottolineano i vari rischi che il ribasso comporta, in particolare le perdite finanziarie per le imprese energetiche e le società finanziarie, nonché la minore domanda di investimenti nel settore oil&gas.

Ad ogni modo, credo che per paesi come l’Italia i vantaggi sono e saranno maggiori degli svantaggi: maggiore potere di acquisto grazie alla riduzione della spesa per energia e trasporti, rafforzamento del dollaro e quindi dell’export (salvo ovviamente che verso i paesi esportatori di greggio), sollievo per il settore della raffinazione.

Non credo molto alle minacce di una deflazione indotta dal calo di materie importate e ai danni che essa produrrebbe. Molto più colpevole è un’indiscriminata politica di austerità delle finanze pubbliche.

Nel complesso quindi il calo dovrebbe essere una cosa abbastanza buona, a meno che non siate azionisti di Eni, Tenaris o creditori del Venezuela. Ma questa è un’altra storia.

PS: commenti da parte di macro-economisti sono ben accetti.

PPS: per chi oggi fosse a Padova, consiglio un convegno al Centro Levi Cases dell’Università di Padova. Massimo Nicolazzi parlerà di idrocarburi non convenzionali e dell’impatto del loro sfruttamento sui mercati energetici.

Quanto è difficile essere obiettivi, onesti e accessibili nel fare informazione

ReportUsualmente sono uno spettatore contento di Report, che reputo uno dei pochi programmi di giornalismo d’indagine di buon livello che viene fatto in Italia e che va a fare le pulci a politici, imprenditori, sindacati e quant’altro.
Proprio per questo sono tuttavia deluso da una parte della trasmissione andata in onda domenica 21 dicembre, ‘O sole mio, che si proponeva di aggiornare l’analisi condotta in una puntata della scorsa primavera dedicata al fracking.
Tra le inesattezze, imprecisioni o affermazioni che a un pubblico poco preparato possono risultare tendenziose mi limito a indicare:
• Min. 2: parlando del rischio sismico in Italia non si distingue bene fra i rischi connessi all’estrazione di idrocarburi, che non necessariamente avvengono col fracking, e i rischi connessi all’immissione e estrazione di gas da siti di stoccaggio, attività che non impiega tecniche simili a quelle del fracking.
• Min. 3: qualche decina di trivellazioni fatte a 10-20 km dalla costa o in alcune aree poco abitate (Basilicata) non credo danneggino il turismo italiano più di quanto non facciano la scarsità dei collegamenti di trasporto, il poco inglese degli operatori o l’edificazione di centinaia di centri commerciali e capannoni industriali.
• Min. 3: vero, l’industria estrattiva è a bassa intensità di lavoro, ma può dare sbocco a produttori di tecnologia e lavoro a varie centinaie di persone altamente specializzate (ingegneri, geologi,..) oltre che a qualche migliaio di operai. Come al solito, dirimente è l’origine di questi fattori della produzione e l’effetto moltiplicatore che può generare. Se fossero tecnologie e ingegneri italiani forse il gioco varrebbe la candela.
• Min. 4: non si capisce cosa si intenda e in base a che assunzioni si possa affermare che il 75% dei danni ambientali causati dall’inquinamento (????) provengano dalla produzione di energia. D’altra parte essendo l’energia utilizzata in ogni attività, l’affermazione rischia di perdere di significato. Un numero messo così credo miri impressionare e non ad informare.
• Min. 4: riportando il dato dei costi ambientali stimato dalla EEA, il giornalista riferisce a parole il limite estremo del range indicato nel testo del documento (169 mld di euro) e non anche quello minimo (102 mld): un po’ asimmetrica come lettura.
• Min. 6: la produzione elettrica da fotovoltaico non può sostituire quella da gas o carbone perché se il sole non c’è, anche avere 1.000 km2 di pannelli fotovoltaici non basterebbe a coprire la domanda. Gli impianti fotovoltaici NON rimangono per sempre: dopo 20-25 anni i pannelli si degradano e vanno sostituiti. La Road Map 2050 non è ancora vincolante: è solo una proposta della Commissione europea in risposta a un impegno vago preso dal Consiglio europeo di ridurre entro il 2050 le emissioni clima-alteranti dell’80-95%.
• Min. 6: le riserve provate di idrocarburi in Italia valgono sì meno di 2 anni di fabbisogno (a spanne), ma il loro sfruttamento a tassi ragionevoli, anche doppi di quelli attuali, causerebbe il loro esaurimento fra non meno di 10-15 anni, tempo sufficiente ad ammortizzare gli investimenti. E tutto questo senza dimenticare che le riserve provate potrebbero anche crescere nel tempo a seguito di nuove scoperte geologiche e/o tecnologiche.
• Min. 7: non è vero che il gas in Italia viene usato soprattutto per fare elettricità: più della metà viene usato per produrre calore nelle case o nelle industrie. E di nuovo, il fotovoltaico può sostituire solo parte della produzione elettrica da gas (di notte come si fa? Le batterie non sono ancora economiche e hanno pure esse costi ambientali).
• Min. 8: a fronte di (circa) 70 mld di euro annui di fonti energetiche importate dall’Italia non si cita che l’investimento in rinnovabili nel 2011-13 è stato in Italia di circa 30-40 mld di euro, il quale ci permette sì di ridurre le importazioni, ma dato che le rinnovabile aggiunte hanno coprono solo il 3-4% della domanda totale di energia primaria, si vede bene che si tratta di un investimento costoso e non molto efficace (in termini di importazioni evitate).
• Min. 9: il contenuto del servizio devia paurosamente dall’argomento che doveva essere aggiornato, ossia il tema della sismicità legata alle attività estrattive: non se ne parla più. Forse non ci sono molti argomenti o forse si voleva fare una puntata pubblicitaria al solare.
• Min. 10: la filiera delle rinnovabili è in crisi e si perdono posti di lavoro. È vero, ma non si dica che si vuole ammazzare un settore che andava in contro-tendenza rispetto al ciclo economico nazionale! Con 20-30 miliardi di sussidi in 3-4 anni credo che anche il settore delle bambole gonfiabili sarebbe cresciuto e avrebbe assunto migliaia di lavoratori.
• Min. 15: anche le conclusioni della Gabanelli non citano nemmeno per striscio il tema di apertura (e della puntata di aprile che si doveva aggiornare).

Sperando che la colpa sia dovuta ai tempi stretti del giornalismo e non a malafede o impreparazione del giornalista, mi è parso utile segnalarlo su questo blog. Anche questo è servizio pubblico.

Il fantasma di un’opera

di Massimo Nicolazzi

Limes - Quel che resta dell'ItaliaPremessa. 10 anni fa era tutto un fiorire di progetti per realizzare in Italia nuovi terminali di rigassificazione. Non c’era punto della costa dove non ci si cercasse di insediare. Shell, British Gas, Exxon, Gas Natural, Endesa,Gas de France; e poi le italiane, da Enel a Edison ad Erg a Sorgenia ad Iren. Sembrava che l’industry non potesse sopravvivere senza rigassificare nel Bel Paese. Erano tutti pronti ad investirci, e senza alcun paracadute contro il rischio. La legge prevedeva l’obbligo di consentire l’accesso indiscriminato degli operatori interessati ai servizi di rigassificazione (third party access). Ma i potenziali investitori il rigassificatore lo volevano usare loro e per sé; e ponevano perciò spesso l’ottenimento della third party exemption come condizione per la realizzazione dell’opera. Per stimolare l’investimento in rigassificatori “merchant” (e cioè aperti ai terzi) fu perciò introdotto un “fattore di garanzia”, collegato appunto alla garanzia di third party access (e quindi non applicabile, in tutto od in parte, a impianti esentati). Il fattore di garanzia (che ha poi avuto modifiche, vicissitudini e censure di varia natura) prevedeva nella sua formulazione originaria la remunerazione garantita dell’80% del capitale investito.

Gli investitori vogliosi vennero infine lasciati a bagnomaria in una soluzione forte di nimbysmo italico. Molti si diedero, sconfitti, alla fuga. E forse benedicono Nimby perché se gli fosse stato concesso di investire oggi passerebbero qualche guaio. Si sono riusciti a realizzare solo Porto Viro/Rovigo (Exxon/Edison, con fornitura base di GNL dal Qatar) e OLT (Off-shore Livorno), che si sono aggiunti al preesistente impianto di Panigaglia, ma non si può dire che (soprattutto OLT) stiano dando enormi soddisfazioni ai propri azionisti e stakeholders. Qualche altro progetto è autorizzato; ma non si vede tra i suoi originari padrini alcuna ansia di realizzarlo né (soprattutto) di rischiarci soldi propri.

Adesso che al privato è passata la voglia di rischiare, il rigassificatore sembra però essersi convertito in oggetto d’amore pubblico. Uno o qualcuno in più, si dice, renderebbe più liquido il mercato; e ci diversificherebbe le fonti. Insomma ci darebbe più sicurezza. Se ci dà più sicurezza è “strategico”; e se il privato non lo vuole fare perché non lo trova più “economico” dobbiamo, posto che è “strategico”, renderglielo tale. L’idea è di garantirgli il recupero dell’investimento indipendentemente dall’utilizzo dell’impianto. Che una volta costruito rigassifichi a piena capacità o resti vuoto ed inoperoso per l’investitore non dovrebbe far differenza. Lui comunque recupera il Capitale Investito Riconosciuto (meglio noto come RAB, Regulatory Asset Base) ed un rendimento garantito sullo stesso. Il tutto finanziato attraverso la traslazione pro quota di questi corrispettivi sulla bolletta del consumatore.

Prima il privato voleva, e non glielo abbiamo lasciato fare. Adesso che non vuole, lo incentiviamo a farlo. Il rigassificatore come comparsa ciclica, e quasi fantasmica. Magari è il caso che ci chiediamo cosa è cambiato davvero in questo decennio.

Domanda e Offerta. I fondamentali a volte aiutano. Nel 2005 abbiamo consumato più di 86 Miliardi di Metri Cubi di gas naturale; nel 2013 70 giusti giusti; e nel 2014 sarà difficile che andiamo di molto sopra i 67. Nel 2006 (massimo storico) abbiamo importato dall’estero quasi 77 miliardi e mezzo di metri cubi/anno; nel 2013 poco meno di 62; e nel 2014 non è certo che faremo 60. Più che il dato puntuale, qui però è importante quello previsionale (i.e., se si investe in qualcosa che va in produzione in un arco di 3-4 anni, quel che decide dell’investimento è la previsione di quel che sarà il mercato dal quarto anno in poi). Nel 2005/6, era senso (più o meno) comune che a fine decennio avremmo raggiunto e poi superato i 100 miliardi di consumi. E questo fece partire la volata a chi ne (im)portava di più. Lo scenario prevalente ti proiettava per l’inizio di questo decennio il miraggio di un mercato dell’offerta dove bastava avere gas per fare margine. Il stimolò la corsa ai rinnovi ed ampliamenti sul lungo periodo dei contratti di importazione via tubo siccome ed anche la disponibilità ad investire in nuovi rigassificatori.

È poi successo che i consumi nel decennio anziché salire come previsto del 30% siano del 30% scesi. E tra l’altro in maniera selettiva. I consumi civili più o meno stabili; e la perdita dei consumi concentrata (quasi) equanimente tra consumi industriali e consumi termoelettrici. Per la crisi dei termoelettrici (che dal 2010 hanno perso da soli 9 miliardi di metri cubi, riportandosi ai consumi del 2002) il contributo delle energie rinnovabili non è trascurabile (ed anzi forse marginalmente decisivo). Per tutto il resto, sono state crisi e recessione.

Il che ci lascia a fare i conti con i dati previsionali dell’oggi. Che magari e forse sperabilmente sono sbagliati come quelli di ieri; e però sono la condizione della propensione ad investire. L’ultimo scenario quadriennale di Snam Rete Gas (giugno 2014) accreditava una ripresa dei consumi dell’ordine dell’1% all’anno nel quadriennio 2014-2017 (e già il 2014 sarà -3/4% anziché +1); e l’orizzonte decennale era di “una crescita media annua della domanda di gas pari allo 0,6%”. Usando come base il 2013 saremmo tra dieci anni un po’ sotto i 75 miliardi di metri cubi di consumi (nel 2023, detta altrimenti, ci riuscirebbe di tornare ai livelli del 2012); e usando il 2014 poco sopra i 70 (dopo dieci anni torneremmo cioè infine al punto di partenza).

Non abbiamo, in definitiva, consentito di investire quando il miraggio era che un mercato vi fosse; ed adesso non possiamo sperare che si investa su un mercato che non c’è. Se poi ci sia perciò ragione di “incentivare” è questione che attiene allo stato delle nostre infrastrutture ed alla loro “sicurezza”.

Le infrastrutture. Abbiamo una capacità di importazione installata massima intorno ai 350 Milioni di metri cubi al giorno. Oltre 125 Miliardi di metri cubi/anno, a fronte quest’anno di una sessantina di miliardi di metri cubi di gas effettivamente importato (La parte GNL della capacità totale è di circa 50 Milioni/giorno, 18 Miliardi/anno).

Che le infrastrutture siano un po’ ridondanti è una necessità, anche per le caratteristiche del ciclo dei consumi (che ad Agosto sono di regola meno della metà che a Gennaio/Febbraio; onde per sfruttare la portata dell’infrastruttura d’estate la stessa trasporta anche gas per consumo invernale destinato temporaneamente allo stoccaggio). Un 30% di ridondanza è fisiologico; però superare il 100% molto meno. Anche perché a chiudere il sistema soccorrono gli stoccaggi. 16 Miliardi di metri cubi di capacità, di cui 4,6 riservate allo stoccaggio c.d. “strategico” (quello cioè destinato ad usi di emergenza e sottratto al ciclo estate/inverno ed alla disponibilità degli operatori privati). Sulla base dei numeri di oggi, abbiamo una capacità di stoccaggio dell’ordine del 23/24 % dei nostri consumi nazionali, e con una punta massima di erogazione pari a 225 Milioni di metri cubi/giorno. (La capacità di erogazione effettiva è correlata alla pressione di giacimento; e dunque diminuisce man mano che lo stoccaggio si svuota. A marzo il contributo massimo che può quotidianamente venire dallo stoccaggio è perciò minore di quello disponibile a gennaio). Compariamo questi numeri a quelli dei consumi effettivi. Nel 2012 (che è stato inverno freddo, e dunque con consumi presumibilmente più alti di quelli con cui ci confronteremo nei primi mesi del 2015) i consumi medi giornalieri sono stati (arrotondando i decimali) di 327 milioni di metri cubi/giorno a Gennaio, 370 a Febbraio e 213 a Marzo. L’idea di una ridondanza strutturale ne pare a prima vista ben confermata.

Poi, è vero, ci sono le “punte”. La punta giornaliera di tutti i tempi si è verificata nel Febbraio 2012. 464,4 Milioni. E qui, c’è da riconoscerlo, il sistema è andato un po’ in affanno. Ma proprio l’eccezionalità rimanda alla questione sottesa a qualunque decisione sulla “sicurezza” energetica. Che è poi quella di capire quanto siamo disposti a spendere per assicurarci contro l’imprevisto; e di cercare di capire da quale “imprevisto” cerchiamo di proteggerci.

Sicurezza energetica. Ovvero il fabbisogno, e dove e con che rischi procurarselo. Sul fabbisogno, nel breve le variabili principali sono due. La produzione nazionale e l’apertura o meno di nuove infrastrutture di importazione. La produzione nazionale oggi vale poco meno di 8 miliardi di metri cubi/anno. Se come annunciato l’attività di ricerca e produzione sarà di nuovo consentita (soprattutto con riferimento al Nord Adriatico) nei prossimi anni la produzione nazionale potrebbe crescere di 4/5 miliardi. Se invece sarà Nimby la produzione nazionale continuerà a decrescere, e dovremo sostituirla importando 8 miliardi di metri cubi in più.

Le infrastrutture. Al netto dei rigassificatori che a rischio proprio nessuno sembrerebbe voler fare, la cosa più concreta sembrerebbe il TAP, o Trans Adriatic Pipeline, che dovrebbe fare arrivare sino a 10 miliardi/anno di gas azero. Se il TAP arriva aumenta però la ridondanza; o nel caso peggiore (quello della fine della produzione nazionale) la mantiene ai livelli dell’oggi. Ci potremmo trovare nel 2020 con poco più di 70 miliardi di consumi; alimentarli con gas tutto di importazione; ed avere una capacità infrastrutturale di importazione superiore a 135 miliardi/anni (quando nel 2006 importammo il volume record di 77 miliardi e mezzo, avevamo capacità infrastrutturale intorno ai 100 miliardi). Il TAP infatti lo faranno (se e quando) sul presupposto di poter riesportare il gas che entra in Italia; che sennò si correrebbe il rischio di far ridondanza non solo di infrastruttura, ma anche di materia prima.

I rischi. La dipendenza dall’importazione fa di regola sinonimo con rischio fornitore. E gli usi civili ti stabiliscono una correlazione tra consumi e temperature. Sicurezza vuole in pratica dire “assicurarsi” contro i rischi. E l’”assicurazione” prende spesso e a volte di necessità la forma della ridondanza. Capacità in eccesso vuole dire poter potenzialmente diversificare i flussi in provenienza dai singoli fornitori. Stoccaggio in eccesso vuol dire mettersi in sicurezza da gelate a marzo. E così di seguito. Il problema qui è che la ridondanza, per definizione, non è “economica”; o detta altrimenti che costruire qualcosa che serve solo in caso di gelate a marzo vuol dire costruire qualcosa che non sarà mai in grado di ripagarsi da solo. La sicurezza non è gratis; ed oltre certi limiti non ha senso di “mercato”. Il quantum di sicurezza ed il quantum (inteso come costo) della sicurezza è decisione “pubblica”, ed anzi “politica”. Anche perché finanziabile solo con intervento pubblico diretto o in alternativa (il che è la norma) con la garanzia del recupero dell’investimento attraverso la sua trasposizione nella tariffa delle utenze (il meccanismo RAB).

Crisi economica e rinnovabili ci hanno lasciato in eredità un sistema gas particolarmente ricco di ridondanza. Poi è possibile che se nella seconda metà di marzo stiamo sempre sotto zero l’abbassarsi della punta di erogazione degli stoccaggi ci metta un poco in crisi; ed è possibile che in caso di blocco delle forniture dalla Russia che si protrae oltre i due/tre mesi il sistema mostri qualche (gestibile) debolezza. Ma quanto costa “assicurarci” da questi eventi? Ed alla luce della probabilità che questi eventi si verifichino, vale la pena di assicurarli o non sarebbe il caso di destinare altrove i fondi della polizza? Fissare l’asticella della sicurezza che possiamo permetterci di comperare; e poi individuare le “ridondanze” che ce la assicurano. Ridondanze che a volte potranno essere di materia prima (ampliare la capacità di stoccaggio non ha senso se gli stoccaggi restano poi vuoti), ed altre solo infrastrutturali. A questo, e non ad altro, dovrebbe essere confinato il discorso sulla sicurezza. E farsi infine discorso trasparente.

Oltre la ridondanza. Ovvero aggiungere ridondanza a ridondanza. E’ il vero cambiamento di paradigma del decennio. Nel 2005 rincorsa privata a nuove infrastrutture, e timore di non essere comunque in grado di soddisfare le necessità del futuro. L’infrastruttura driven dalla domanda. Nel 2015 stimolo pubblico a nuova ridondanza. L’infrastruttura, cioè, driven dalla “sicurezza”.

Si chiude un decennio in cui i nostri consumi sono scesi quasi del 30%; e la nostra capacità infrastrutturale di importazione è invece contemporaneamente cresciuta grosso modo del 20% (essenzialmente per effetto degli ampliamenti dei gasdotti Tag e Green Stream e dell’entrata in esercizio dei rigassificatori di Rovigo e Livorno). Che altro sia ancora necessario ti dà l’idea che l’asticella della sicurezza stia scomparendoci tra le nuvole.

La richiesta di più infrastrutture prende essenzialmente due forme, spesso tra loro complementari. Una è la leggenda dello Hub; e cioè l’idea che l’Italia possa essere punto di arrivo e grande arteria di transito per il gas destinato ai mercati europei. L’altra è che per alimentare lo Hub ma anche per dare maggiore liquidità e sicurezza al sistema italiano si rendano necessari uno o più nuovi punti di importazione nella forma di impianti di rigassificazione.

Lo Hub. Significa tra l’altro ampliamento della rete di trasporto nazionale. Già sulla base di quanto si annuncia (Tap incluso) Snam Rete Gas stima la necessità di dover rendere trasportabili sull’asse Sud Nord circa 25 Milioni di metri cubi/giorno aggiuntivi agli attuali. 9 Miliardi all’anno, essenzialmente derivanti dal miglioramento dell’infrastruttura calabra e dalla realizzazione della c.d. dorsale adriatica (finalizzata a collegare eventuali importazioni dalla Puglia). La dorsale è stata ripetutamente bloccata da problemi di permitting ; ma magari la riforma del titolo V della Costituzione precederà il Tap. Il punto, a nostri fini, è un altro. Se un importatore chiede accesso alla rete e presta le garanzie previste dalla normativa (ARG/gas/2010), insomma garantisce di pagare per l’utilizzo della capacità che chiede di avere a disposizione, che sia comunque benvenuto. Ma non sembrano esserci oggi basi ragionevoli per invogliarlo attraverso la realizzazione anticipata di capacità non allocata. Non c’è motivo cioè di far pagare in bolletta ai consumatori alcuna ulteriore ridondanza di capacità. Si transiterà dall’Italia se così convenienza (degli operatori) vorrà (ed il potenziale che ciò accada appare francamente un po’ sopravvalutato). Lo stimolo pubblico (seppur nella forma mascherata dell’allocazione in tariffa di nuova capacità di trasporto non allocata) pare decisamente fuori luogo. E ciò dovrebbe valere sia per la rete interna che per le infrastrutture di importazione quali, appunto, i rigassificatori.

Il rigassificatore agevolato. Ovvero, formalmente, la resurrezione del fattore di garanzia. Di recente concesso all’impianto di Livorno. E che ci si immagina di estendere a 1-2 impianti futuri, per renderne certa la realizzazione. Magari ampliando la quota garantita e remunerata di capitale investito dall’attuale 71% al 100%. Il rigassificatore che da impianto industriale di trasformerebbe così per modalità di remunerazione e sua messa in bolletta in un pezzo della Rete Nazionale. Nel caso di Livorno la giustificazione è stata al solito il carattere “strategico” dell’opera. Ne sono state date anche giustificazioni tecniche sul cui merito non si può qui entrare (se non per dire, en passant, che se il valore economico dell’opera sta nel suo poter mettere a disposizione una capacità di stoccaggio di emergenza, allora forse rafforzare gli stoccaggi a terra a parità di risultato sarebbe costato molto meno; ma transeat). E più in generale si è sostenuto che l’aumento della capacità di rigassificazione disponibile darebbe un contributo forte alla nostra “sicurezza” ed a rendere più liquido il mercato. Nulla di diverso sarà certamente detto per giustificare l’eventuale prossima avventura e magari l’estensione del fattore di garanzia al 100%.

Sicurezza e liquidità. Due osservazioni possono forse aiutare a chiarire e capire. La sicurezza. Quanta e da chi o cosa? Di questi tempi, com’è ovvio, dici sicurezza e pensi alla Russia. Però anche quello è in buonissima parte un falso problema. Nel 2013 e 2014, gli acquirenti italiani hanno usato delle ridondanze non per affrancarsi, ma per comprare il comprabile dalla Russia ed il meno possibile dagli altri; col risultato che siamo arrivati ad approvvigionarci da Oriente per il 60% del fabbisogno, contro il 30 di pochi anni fa. Abbiamo contratti correnti di lungo periodo che prevedono ancora per i prossimi anni volumi minimi (i cosiddetti volumi di take or pay) di importazione dell’ordine dei 20 Miliardi di mc/anno; e (forse) pacta sunt servanda. La Russia a sua volta non ha la minima voglia di emanciparsi da noi, posto che al netto di un poco di GNL oggi l’unico cliente del suo gas è in pratica l’Europa (il che a fronte di un mercato in decrescita pone loro un problema di security of supplying, più che a noi un problema di security of supply). E infine, a furia di domanda che stagna o decresce, forse della Russia in caso di emergenza possiamo seppure un po’ freddini già fare a meno. La “Stress Test Communication” della UE (ottobre 2014) simula un’interruzione totale o parziale (cioè limitata alle forniture via Ucraina) delle forniture russe per periodi da uno a sei mesi (e già prima dei sei mesi una prolungata sospensione totale delle forniture russe segnalerebbe probabilmente che il problema prioritario non è più il gas). Il caso estremo avrebbe un “impatto sostanziale” sulla UE; e però se fosse messa in campo una forte collaborazione tra i Paesi europei i consumatori protetti continuerebbero a ricevere gas anche nel caso di blocco totale della fornitura russa. (La raccomandazione per la gestione efficace del tema sicurezza è infine a lasciar fare al mercato ed evitare misure intervenzioniste da parte dei singoli Stati).

La “collaborazione” raccomandata dalla UE, più che a nuova infrastruttura, sembra rimandare all’integrazione che c’è. O, come nel caso dei rigassificatori, che non c’è. L’Europa (allargata a questi fini alla Turchia) ha una capacità di rigassificazione installata totale nell’ordine dei 200 Miliardi di metri cubi di gas naturale/anno. Oltre il 40% del consumo europeo è perciò potenzialmente copribile con importazioni di GNL. Con due problemi. Il primo è che la capacità non è integrata in rete, e perciò spesso disponibile solo localmente. L’esempio estremo è quello della Penisola Iberica. 65 Miliardi di mc di rigassificazione installati, e dunque 65 miliardi di capacità di importazione. Il problema è che poi non li puoi riesportare in Europa. Il collegamento Spagna – Francia non sopporta allo stato attuale più di cinque miliardi/anno. La capacità di importazione in Europa è fortemente ridondante; ma la capacità di distribuirla per l’Europa, e renderla un unico mercato, è ancora fortemente carente. Il non distribuito, in ottica europea, può equivalere al non importato. Forse vale la pena di dare priorità all’integrazione di quel che già c’è.

Il secondo problema attiene in qualche modo alla “liquidità” del mercato. Il GNL, nelle condizioni dell’oggi, non rende più “liquido” il mercato italiano del gas; ma semplicemente aumenta la liquidità del mercato del GNL. Che va dove più lo pagano. L’anno scorso mediamente10,72 Dollari per milione di BTU in Germania, e 16,17 in Giappone, con punte sporadiche intorno ai 20 dollari su alcuni mercati asiatici. Al mondo c’è capacità di liquefazione ridotta rispetto alla domanda di rigassificazione, e forse neanche i progetti di liquefazione in corso basteranno ad uscire dalla condizione di un mercato prevalentemente dell’offerta. E il GNL va dove meglio lo pagano. I rigassificatori europei, nel 2013, sono stati la ridondanza delle ridondanze. Hanno avuto un fattore di utilizzo intorno al 20%. L’equivalente di 160 miliardi di metri cubi di capacità di rigassificazione inutilizzata. A fronte, per dare un paragone, di 163 miliardi di importazioni totali dalla Russia in Europa. Una ridondanza che pareggia il volume massimo storico dell’importazione di gas russo. Se volevamo più gas rigassificato e meno gas russo, sarebbe bastato comprare più gas a prezzi asiatici, e giusto pagarlo un 30/40% in più. Il che però non sarebbe parso un gran contributo alla (o della…) liquidità del mercato.

Un’aggiunta alla “sicurezza” sostanzialmente superflua. Un contributo di liquidità paradossalmente negativo. La Signora Gina forse questo in bolletta non lo vorrebbe pagare. Poi certo un’opera è occupazione e lavoro. Però qui è anche e forse soprattutto tentazione finanziaria. I meccanismi di compensazione dello strategico consentono a chi investe di lucrare via bolletta un margine certo tra il costo del capitale investito e il suo rendimento. Senza questa spinta, il rigassificatore dieci anni dopo sarebbe forse fantasma vero. Invece potrebbe essere ancora opera, e farsi paradigma dell’infrastruttura regolata come ultima frontiera della rendita.

Sarebbe forse meglio evitare di cadere in tentazione; e che finisca che si scrive Hub, ma si pronuncia RAB.

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(articolo apparso sul numero 11/2014 di Limes e riprodotto con l’assenso dell’editore)