Il gas russo e la situazione degli stoccaggi in Europa

Livello di riempimento degli stoccaggiIn Ucraina, la situazione sul terreno sembra finalmente migliorare. E le possibilità che si arrivi a un compromesso sulla questione delle forniture per quest’inverno si fanno più concrete.

Nonostante quanto sostenuto da alcuni, fare a meno del gas russo per i Paesi europei sarebbe molto complesso, molto costoso e non alla portata di tutti.

In primo luogo, perché per aumentare le importazioni di GNL occorrerebbe pagare i carichi addizionali a prezzi di mercato. Ammesso che si trovino, peraltro. Tradotto in euro, diverse decine di miliardi di euro di passivo commerciale in più, da scaricare sugli utenti finali. Via tariffa o via fiscalità generale, cambia poco.

In secondo luogo, perché i terminali di rigassificazione sono soprattutto in Spagna e Regno Unito, ma gli importatori di gas russo si trovano in Europa centrale e orientale. E non ci sono infrastrutture di trasporto adeguate, nel mezzo.

Insomma, alla fine del gas russo ne abbiamo bisogno, per scaldare il prossimo inverno e per farlo senza peggiorare una situazione economica di certo non rosea. C’è un particolare tecnico però da tenere in considerazione: gli stoccaggi, fondamentali per soddisfare la domanda di gas durante i mesi estivi invernali. E che in questa stagione dovrebbero essere praticamente al massimo.

Secondo i dati GIE, in UE solo un Paese è attualmente in una situazione critica, l’Ungheria, che ha gli stoccaggi pieni a meno del 60%. Fuori dai nostri confini, il problema è naturalmente l’Ucraina, che ha gli stoccaggi letteralmente mezzi vuoti e solo un paio di mesi utili per riempirli, prima che arrivi il freddo.

Tecnicamente, sarebbe anche possibile, secondo i dati ufficiali: con una capacità di iniezione massima di 285 Mmc al giorno e 15,5 Gmc da riempire, ci vorrebbero 54 giorni (in teoria). Ma ci vorrebbe anche il gas russo da metterci dentro e, va da sé, la liquidità per pagarlo. E io ho già un’idea di chi ce lo metterà, alla fine…


Livello di riempimento degli stoccaggi


Le sanzioni spingono la Russia verso la Cina, ma l’Europa sta a guardare

FT - Sanctions help Russia overcome its China paranoiaLe sanzioni alla Russia decise dagli Stati Uniti e appoggiate senza entusiasmo dai governi europei continuano a fare danni, senza sortire effetti particolarmente positivi sul terrreno.

Come noto, le nuove sanzioni colpiscono gli operatori russi dell’energia a livello finanziario, riducendo drasticamente le loro possibilità di ricevere finanziamenti dagli istituti finanziari occidentali. Nessuna restrizione invece sui flussi di esportazione, troppo importanti sia per la Russia sia per i Paesi europei perché entrino nel gioco delle sanzioni.

Eppure, qualche conseguenza strutturale le sanzioni la stanno avendo. E si tratta di cattive notizie per l’Occidente, forse persino più che per la Russia. Limitato nella cooperazione coi tradizionali partners europei, il governo di Mosca si rivolge sempre di più a quello di Pechino.

Sebbene le notizie abbiano un timing e alcuni dettagli che sanno di propaganda, resta il fatto che il settore energetico russo si sta legando sempre di più alle controparti cinesi. Alla base certamente c’è un dato geografico: il mercato più vicino alle riserve della Siberia orientale è la Cina. Ma non è un dato determinante, soprattutto per il petrolio (in fondo anche l’Ucraina è più vicina della Germania).

E non si tratta di una novità di questi mesi: i cinesi hanno comprato una quota di Udmurtneft (2006), finanziato Transneft (2009), sono entrati in Yamal (2013). E naturalmente hanno siglato a maggio un accordo trentennale con Gazprom per il gas siberiano.

Ora è arrivata l’offerta russa di ingresso cinese in Vankorneft, una controllata di Rosneft che opera una serie di campi in Siberia orientale. L’eventuale accordo con CNPC avrebbe però un chiaro elemento di novità: Vancor ha un portafoglio di campi onshore, che non comportano particolari rischi o sfide tecnologiche. Insomma, a differenza di tutti gli altri casi di ingresso straniero nell’upstream russo, l’ingresso straniero non riguarderebbe campi marginali o tecnologicamente problematici.

Un trattamento di favore riservato al governo cinese, che potrebbe precludere all’annuncio di ulteriori iniezioni di capitali cinesi, magari sotto forma di prestiti a tasso agevolato coperti da contratti di fornitura di lungo periodo. Indispendabili per compensare gli effetti delle sanzioni e per dare un segnale chiaro ai governi, agli istituti finanziari e alle imprese occidentali, che nel frattempo continuano a perdere importanti occasioni di investimento. Con conseguenze che si trascineranno per decenni.

Russia: i pessimi consigli dei falchi

FT - Call Putin’s bluff – he will not cut off Europe’s gasIn un articolo di ieri dal titolo Call Putin’s bluff – he will not cut off Europe’s gas, Matthew Bryza cerca di argomentare a favore di un irrigidimento europeo su posizioni antirusse. Semplificando, l’idea è che la Russia dipenderebbe dalle esportazioni di gas verso l’UE, ma che i Paesi europei potrebbero fare a meno del gas russo e quindi dovrebbero “chiamare” il bluff di Putin.

A parte che Putin non sta tentando nessun bluff perché né lui né Gazprom hanno mai minacciato un’interruzione delle forniture ai clienti europei. E non avrebbero ragione di farlo, visto che si tratta di partner affidabili e di lungo periodo, che stanno facendo giusto finta di sanzionare la Russia e coi quali gli scambi commerciali continuano con mutuo beneficio.

Per Bryza però gli Stati europei dovrebbero seguire la linea dura e prepararsi a uno scontro, adottando tre misure. Una più assurda dell’altra.

Innazitutto, la Commissione Europea dovrebbe imporre un riempiemento al 100% degli stoccaggi europei al più presto. Il che pone due problemi: il primo è “chi paga?”, il secondo è “da dove viene il gas?”. La risposta sarebbero che i contribuenti europei a pagare con le tasse un eccesso di scorte di gas (prevelentemente russo) per prepararsi a un taglio del gas (russo).

Tralasciando che Bryza confonde i dati delle esportazioni russe in Europa con quelli della sola UE, si pone innanzitutto il problema che l’erogazione giornaliera da stoccaggio ha dei limiti e non basta avere maggiori volumi complessivi sottoterra per rimpiazzare il flusso giornaliero dei gasdotti dalla Russia.

La seconda misura è ancora più insensata: si tratterebbe di “identificare fornitori di GNL” per fornire i volumi in più, da sommare alle erogazioni da stoccaggio per impiazzare tutto il gas russo [sic!]. Il tutto, sulla carta sarebbe facile: basta sfruttare l’enorme capacità di rigassificazione inutilizzata.

Peccato che la domanda da soddisfare sarebbbe in Europa centro-orientale e i terminali inutilizzati si trovino soprattutto sulle coste spagnole e britanniche. E che le diverse parti d’Europa non siano collegate da una rete di gasdotti in grado di trasportare il gas. Insomma, basterebbe inondare di gas Spagna e Regno Unito per scaldare gli slovacchi. Magia delle medie.

La terza misura, per rispondere a una domanda di prima, sarebbe quella di coprire i costi derivanti dalla questa strategia con un bell’indebitamento europeo, stimato (come?) in 20 miliardi di euro. Come se l’economia europea avesse bisogno di essere depressa ancora un po’.

L’interesse europeo e italiano stanno decisamente altrove, su tutta la linea. Ma gli interessi che stanno a cuore a Bryza non sono di certo i nostri.

Privatizzazioni Enel e Eni? Un processo inarrestabile

La Repubblica - Privatizzazioni, lo Stato si stacca dai colossi Eni ed EnelLe necessità finanziarie della Repubblica sono note e l’autunno si preannuncia caldo. Tra le misure che il governo metterà in campo per fare cassa è attesa anche la vendita sul mercato di un ulteriore 5% della partecipazione pubblica in Eni ed Enel.

A oggi, la partecipazione di Eni pesa per il 30,1% del capitale, divisa tra Ministero dell’economia (4,34%) e CDP (25,76%). Considerando che la capitalizzazione di Eni è di 69 miliardi, la dismissione varebbe tra i 3 e i 3,5 miliardi.

La partecipazione in Enel pesa invece per il 31,24% del capitale, tutta a controllo diretto del Ministero. Considerando che la capitalizzazione di Enel è di circa 38 miliardi, la dismissione varrebbe circa tra 1,5 e 2 miliardi.

Nel complesso, l’intera operazione dovrebbe portare nelle casse pubbliche circa 5 miliardi di euro, che si affiancherannno ai 2 miliardi arrivati per la partecipazione cinese in CDP Reti, secondo un progetto più volte ribadito dal ministro Padoan.

Dal punto di vista delle imprese, in realtà cambia poco, perché lo Stato resterà in ogni caso sempre l’azionista di riferimento.  Giova anche ricordare che a portare sempre più fuori dall’Italia gli interessi delle due multinazionali in realtà non è la composizione dell’azionariato, ma la necessità di investire e crescere sui mercati internazionali per restare competitivi. Anche senza considerare la crisi economica, il mercato italiano è comunque troppo piccolo.

Discorso in parte diverso vale per le reti, che per quanto si espandano all’estero, restano necessariamente centrate sul nostro Paese. E che strutturalmente rappresentano il punto più vulnerabile del sistema energetico nazionale, quello in cui l’aspetto di servizio pubblico resta più forte. E su cui il decisore politico a ragione si sta concentrando maggiormente (la questione partecipazione vs regolazione è poi un altro capitolo, ma lasciamolo da parte).

Siamo in ogni caso di fronte a uno storico cambiamento di paradigma: dopo decenni in cui in Italia Eni e Enel sono stati sinonimi di politica energetica, ora i pronfondi cambiamenti tecnologici, economici e istituzionali degli ultimi venti anni stanno portando a un’inevitabile biforcazione.

Da un lato Eni e Enel, un tempo attori e strumenti della politica, ora sempre più multinazionali private orientate al profitto come tutte le altre. E dalle quali il governo come azionista può tranquillamente uscire. Dall’altro lato la politica energetica, orientata alla salvaguardia della sicurezza nazionale e degli altri obiettivi scelti dal decisore, dalla riduzione delle emissioni alle condizioni di accesso per gli indigenti.

Per il decisore, le sfide a cui guardare sono due. A livello nazionale, quella di accelerare il processo di dismissione nelle partecipazioni a livello locale, che hanno completamente perso la loro ragion d’essere, ossia lo sviluppo delle reti locali, e che ora galleggiano o sono in perdita, afflitte da nanismo e in molti casi da ingerenze politiche.

A livello europeo, la sfida è invece quella di svolgere un ruolo più attivo nell’integrazione delle politiche energetiche europee, allo scopo di promuovere gli interessi del sistema produttivo italiano e di tutelare la sicurezza energetica nazionale. Pena, lasciare che la politica energetica e gli interessi di qualcun altro si travestano da politica europea.

L’economia ucraina verso il tracollo?

OIES - Ukraine’s imports of Russian gas – how a deal might be reached L’inverno si avvicina e nel prosimo trimestre la domanda di gas europea tornerà a crescere. Intanto però gli stoccaggi ucraini, fondamentali per garantire i flussi di gas verso l’Europa orientale e l’Italia, restano pericolosamente mezzi vuoti (48% a metà agosto).

A rallentare il ritmo delle iniezioni è l’assenza di un accordo tra Gazprom e Naftogaz dopo il cambio di governo a Kiev. Dal 16 giugno, tra l’altro, Gazprom ha interrotto le esportazioni destinate al mercato ucraino, mantenendo solo i flussi diretti in Ue.

I nodi sono due: il primo è il debito, 5,3 miliardi di dollari secondo quando dichiarato da Gazprom, a cui in teoria si aggiungono 11,4 miliardi per volumi acquistati ma non ritirati. Il secondo sono i prezzi per il futuro, considerando che il contratto vigente scade in teoria nel 2019. A ricostruire la vicenda in dettaglio è Simon Pirani.

Secondo Pirani, un accordo sul gas può essere raggiunto anche senza che si risolvano gli altri problemi politici. Nel breve periodo, la soluzione potrebbe essere che Naftogaz segua la prassi di mercato e paghi tutta la somma dovuta, aspettando poi che il tribunale arbitrale decida eventuali compensazioni.

Per il futuro, invece, è probabile che emergano dinamiche più competitive, Naftogaz perda il monopolio sul trasporto e il gas russo venga venduto a intermediari direttamente al confine tra Russia e Ucraina. I rischi di furto saranno così ridotti notevolmente, ma Gazprom dovrà accettare prezzi minori, vista la generale discesa dei prezzi sui mercati Ue e la crescente competizione del carbone sul mercato ucraino.

A rendere incerti gli sviluppi è però soprattutto la disastrosa situazione economica dell’Ucraina, che mette in dubbio i fondamenti stessi dell’intervento del Fondo Monetario, come ben spiegato dal Financial Times. I Paesi occidentali preparino il portafogli.

Qatar: GNL e terrorismo?

La Stampa - Iraq, l’islamismo da esportazione del Qatar. Per il Califfo un tesoro di due miliardi L’Ue continua nella politica di sanzioni alla Russia e la Commissione guarda con interesse al GNL come fonte diversificazione delle importazioni di gas.

Il Qatar naturalmente si presenta come candidato di primo piano. Il potenziale c’è, eccome: primo esportatore al mondo, con 107 Gmc di esportazioni nel 2013, una quota del mercato mondiale del 33% e oltre 25.000 Gmc di riserve.

Il Qatar è peraltro già un fornitore europeo: nel 2013 ha esportato nell’Ue circa 24 Gmc, di cui 5 in Italia, a Cavarzere. E nel 2011, anno prima del nuovo calo dei consumi europeo, si era arrivati addirittura a oltre 40 Gmc.

Intanto, però, si fa sempre più evidente la portata del legame tra il Paese del Golfo e le attività fondamentaliste e terroristiche in Medio Oriente. In particolare, proprio dal Qatar proverrebbero buona parte dei 2 miliardi di dollari su cui ha potuto contate l’ISIS per affermarsi.

A scriverne oggi è Maurizio Molinari, che su La Stampa parla del ruolo del Qatar nel finanziare Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dell’ISIL, anche attraverso appoggi in Turchia. Molinari cita inoltre i Country Reports on Terrorism 2013 del Dipartimento di Stato, da cui il Qatar non esce molto bene, nonostante ospiti una delle più importanti basi militare statunitense nella regione.

Certo, il Qatar non è il solo esportatore di GNL e l’offerta aumenterà nei prossimi anni. Ma il Qatar resterà centrale anche nel prossimo decennio, forte della sua posizione geografica tra Europa e Asia. Non c’è solo il petrolio, a finanziare attività decisamente poco allineate agli interessi europei.

In fondo, Putin può non piacere, ma in giro c’è decisamente di peggio.


Qatar: espotazioni di GNL e controvalore delle esportazioni di gas