Accelerazione South Stream: a Saipem i contratti per la posa

Sole24Ore - Saipem si aggiudica appalto di 2 miliardi per il gasdotto South StreamSaipem si è aggiudicata il contratto per la posa della prima delle quattro linee offshore da 15 Gmc/a del gadotto South Stream, che collegherà la Russia alla Bulgaria, aggirando l’Ucraina.

Dopo il via libera alla firma giunto martedì scorso nel corso della riunione dei vertici del consorzio South Stream Transport (Gazprom, Eni, EDF e Basf), è arrivato ieri l’annuncio che la commessa è andata alla controllata di Eni.

Sulla commessa Saipem impiegherà due delle sue navi di punta, la Saipem 7000 (che ha già posato Blue Stream) e la Castoro Sei (che ha già posato Nord Stream). Si conferma così ancora una volta la forte collaborazione tra le imprese italiane e Gazprom.

Dopo questa ultima decisione, sembrano davvero pochi i dubbi rimasti intorno all’effettiva realizzazione del gasdotto, nonostante i suoi costi molto elevati. Secondo quanto dichiarato da Alexei Miller, il gas inizierà a scorrere alla fine del 2015. Resta da vedere quanto ostruzionismo farà la Commissione europea.

Dopo il precipitare degli eventi in Ucraina, la natura strategica del gasdotto ha fatto passare in secondo piano la questione della fattibilità finanziaria del progetto, che sarà garantita dai capitali russi. I fondamentali restano economici, ma anche la politica a volte ci mette del suo.

Sorgenia: potrà il mercato fare il suo corso?

Centrali SorgeniaLa crisi del settore elettrico che ormai da un paio di anni attanaglia l’Italia sta mietendo la sua prima vittima illustre: Sorgenia.

La società, posseduta per circa il 50% dalla holding Cir di De Benedetti, è infatti oberata di debiti (circa 1,9 mld di euro) dovuti alla realizzazione di ben 4 centrali a gas tra il 2006 e il 2011. Di fronte a un mercato elettrico con eccesso di capacità di produzione e di fronte alla concorrenza crescente delle fonti rinnovabili che hanno spiazzato il gas nel mix di generazione, la società non riesce a far funzionare a sufficienza le proprie centrali nuove di zecca e ha limitato le vendite di elettricità lo scorso anno a una decina di TWh con un ricavo complessivo di circa 2,5 mld di euro.

Troppi pochi per sostenere il debito e così lo spettro del fallimento si avvicina. Oltre alla proprietà (alla Cir si aggiunge la società elettrica austriaca Verbund, che possiede un altro 40% circa di Sorgenia e che ha già deciso di uscire dall’affare), molto esposte sono le banche, le quali potrebbero trovarsi con un’enorme ammontare di crediti non esigibili (tra le più esposte Mps). Certo, potrebbero entrare in possesso delle centrali di Sorgenia, ma la cosa non è affatto allettante al momento.

In un’economia di libero mercato questa situazione dovrebbe portare alla chiusura di Sorgenia e alla dismissione dei suoi asset, che potrebbero essere acquistati a prezzi molto scontati da altre società elettriche. Alcune delle centrali, come per esempio quella di Vado Ligure, posseduta da Tirreno Power, a sua volta controllata da Sorgenia per circa il 40%, dovrebbero essere chiuse. Si contribuirebbe così a ridurre quell’eccesso di capacità presente sul mercato. Tuttavia, il settore elettrico non è un mercato in concorrenza perfetta e già si ipotizza un intervento del Governo per aiutare Sorgenia indirettamente, potenziando il meccanismo di capacity payment introdotto due anni fa a vantaggio del termoelettrico.

Al momento non credo che questo sia qualcosa che al Paese serva, ma solo l’ennesimo aiuto alle grandi imprese pagato da tutti noi tramite la bolletta elettrica. Mi auguro che Renzi, l’innovatore della politica italiana, sia coerente con le idee che continuamente sostiene e decida di non aiutare un’impresa che ha fatto investimenti sbagliati.

L’impatto del non convenzionale sulle relazioni internazionali

John M. DeutchCome ormai è noto, gli Stati Uniti hanno conosciuto negli ultimi 4-5 anni una rivoluzione energetica analoga per importanza a quella che si sta cercando di attuare in Europa. Tuttavia, se da questa parte dell’Atlantico si cerca di promuovere tramite i sussidi pubblici lo sviluppo delle fonti rinnovabili, dall’altra parte dell’oceano sono le imprese private del comparto petrolifero che hanno aperto la strada allo sfruttamento di enormi giacimenti di gas e petrolio non convenzionali.

Le conseguenze di questa rivoluzione si stanno oggi manifestando appieno e stanno portando gli USA verso l’autosufficienza energetica in termini netti (si esporta carbone e si importano uranio e petrolio). Per il professore del MIT nonché ex direttore della CIA, John Deutch, che ha tenuto ieri a Milano una lezione presso il FEEM, questo non significa che gli USA diventeranno energeticamente indipendenti, ma semplicemente che dipenderanno molto meno dalle importazioni di materie prime energetiche dall’estero.

Ciò, a sua volta, permetterà a Washington una maggiore libertà sullo scenario internazionale e rappresenterà certamente un duro colpo, sia dal punto di vista economico che politico, per quei Paesi produttori che dipendono molto dalle quotazioni sostenute del greggio (vedi Russia e Iran, ma anche Venezuela). Quotazioni che per Deutch dovrebbero attestarsi sui 70-90 $ al barile nei prossimi anni.

Secondo Deutch, in sostanza, la rivoluzione del non convenzionale avrà effetti positivi e duraturi (15-20 anni) per i consumatori di tutto il mondo. A patto, naturalmente, che l’industria sia in grado di gestire al meglio l’impatto ambientale che le attività di fracking comportano, smontando così una delle maggiori cause di opposizione da parte delle comunità locali allo sfruttamento degli idrocarburi non convenzionali.

Anche l’Economist a volte sbaglia

 Money talks: March 3rd 2014 - Sabre-rattling and stocksIn questi giorni sono apparsi sui media numerosi commenti sulle possibili implicazioni della crisi russo-ucraina. Come spesso accade, tuttavia, non sempre si parla a proposito o in maniera obiettiva.

Anche l’Economist, fonte di solito molto affidabile, ha espresso una posizione quanto meno non precisa nella rubrica Money Talks.

Nel video uno dei giornalisti sottolinea come l’Europa sia troppo dipendente dal gas russo (25% dei consumi) e come la gran parte di questo passi attraverso l’Ucraina (80%). Conclusione: nel medio-breve termine l’UE è minacciata dalla crisi politica tra Russia e Ucraina e deve intervenire, promuovendo tra le altre cose il ricorso allo shale gas e incoraggiando le recenti aperture dell’Amministrazione USA sull’esportazione di gas nord-americano.

Ora, che l’80% del gas russo diretto in Europa passi dall’Ucraina mi sembra quanto meno un’affermazione capziosa: può anche essere, ma con il Nord Stream e il Yamal Europa disponibili, solo 100 Gmc di capacità di esportazione annua su un totale di circa 180 Gmc passano in suolo ucraino.

Se ci aggiungete il fatto che i consumi europei sono in calo per la crisi economica (i gasdotti stanno lavorando a capacità ridotta) e che la primavera è alle porte, è possibile dire che ad essere minacciati sono solo alcuni Paesi membri dell’UE, come la Slovacchia o la Bulgaria, mentre per gli altri i pericoli sono molto modesti.

Che poi la decisione dell’amministrazione USA di autorizzare la realizzazione di qualche impianto di rigassificazione possa aiutare l’Europa nel medio termine mi sembra fantasia: prima di uno o due anni nessuno degli impianti sarà pronto e anche quando lo sarà rappresenterà solo una piccolo porzione dell’offerta mondiale di GNL. Gli USA non saranno un esportatore significativo di gas prima del 2020 e, probabilmente, non lo saranno mai.

Lo stesso dicasi per le risorse di shale europee: anche se tutti i governi europei dessero oggi il via libera al suo sfruttamento, sarebbero necessari 5-10 anni per avere una produzione significativa. Ci vuole del tempo per creare da zero un’industria.

Come più volte detto su questo blog, bisogna stare attenti quando si leggono notizie sui temi energetici: spesso chi scrivi non è ben informato o, peggio, dice solo delle mezze verità per poter sostenere la sua posizione.

La crisi ucraina e l’approvvigionamento italiano

La crisi ucraina e l'approggionamento europeo del gasSono disponibili qui alcune slides relative al sistema infrastrutturale in Europa orientale e all’impatto della crisi ucraina sui consumatori europei di gas russo.

Il rischio che le tensioni tra Ucraina e Russia portino a un’interruzione delle forniture europee verso l’UE è attualmente basso. Inoltre, solo pochi Paesi in Europa orientale dipedono in misura determinante dal gas naturale russo in transito in Ucraina e sarebbero dunque quelli più colpiti. Si tratta di Cechia, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria.

Nel caso dell’Italia, sebbene tutto il gas russo in arrivo transiti attraverso la rete ucraina, non ci sono rischi significativi, perché le altre infrastrutture sono in grado di far fronte alle domanda. Domanda che peraltro è strutturalmente bassa a causa della crisi e stagionalmente bassa a causa della primavera in arrivo.

 

Emissioni di CO2: l’Europa è marginale (2)

Variazione delle emissioni di CO2 nel decennio in corso e nel prossimoLa scelta dell’Unione Europea di continuare la propria fuga in avanti nella riduzione unilaterale delle emissioni di CO2 si sta rivelando sempre più costosa e velleitaria.

La sussidiazione delle rinnovabili che ne è derivata ha sconvolto il settore elettrico, ha mandato in fumo centinaia di miliardi di capitalizzazione degli operatori del settore per via amministrativa e ha creato posizioni di rendita i cui costi sono direttamente scaricati sulle bollette dei consumatori finali.

Della marginalità delle emissioni europee ne abbiamo già parlato. Vale la pena però sottolineare ancora come secondo la IEA, nel decennio in corso l’UE diminuirà le proprie emissioni di 342 Mt, mentre il resto del mondo le aumenterà di 3.776 Mt. Nel prossimo decennio andrà un po’ meglio: UE -455 Mt, resto del mondo “solo” +2.353 Mt.

Variazione delle emissioni di CO2 tra il 1990 e il 2030Anche di fronte a dati come questi, la Commissione sottolinea continuamente l’importanza del dare l’esempio a livello mondiale, tracciando la strada. Tuttavia, la politica del predicozzo globale non sembra essere particolarmente efficace, dati alla mano.

Secondo lo scenario attuale della IEA, al 2030 l’UE ridurrà le emissioni del 33% rispetto al 1990. Coi nuovi obbiettivi, l’asticella sale al 40%. E gli altri? Nello stesso periodo, le emissioni globali aumenteranno del 74%, con la Russia a -19% e gli Stati Uniti a -3%, la Cina a +349% e l’India a +469%.

Quando inizieremo a riprendere contatto con la realtà?