La presenza cinese nel settore energetico ucraino

Interscambio Ucraina-Cina (merci, mld dollari, UNCTAD) (2002-2012)La partita del settore energetico ucraino ha visto negli ultimi anni un crescente coinvolgimento del governo cinese, che senza clamore mediatico e sotto lo sguardo attento di Mosca sta ampliando la propria presenza in Ucraina.

Secondo quanto riportato da fonti ufficiali, nel dicembre 2012 la China Development Bank Corporation ha aperto una linea di credito a Naftogaz per 3,7 miliardi di dollari per un programma di produzione di gas da carbone. L’avvio della costruzione dell’impianto necessario è previsto per settembre di quest’anno.

L’impianto dovrebbe consentire la produzione di 4 Gmc all’anno di gas sintetico, assorbendo circa 10 milioni di tonnellate di carbone, di cui l’Ucraina è un grande produttore, soprattutto nella regione orientale (e più filorussa) del Paese. Il costo di produzione dichiarato sarebbe di 225-230 dollari ogni mille metri cubi.

L’accordo col governo di Pechino prevede naturalmente un grande coinvolgimento industriale cinese: la tecnologia per la produzione dell’impianto sarà fornita dalla Wuhuan Engineering, una sussidiaria della China National Chemical Engineering Corporation.

La presenza cinese non è certo una novità per il settore industriale ucraino, ma la crescita dell’interscambio tra i due Paesi, il raffreddamento delle relazioni con l’Europa e il buon andamento delle relazioni russo-cinesi potrebbero aprire la strada a nuovi sviluppi.

Per approfondire: il foglio elettronico coi dati realtivi all’interscambio commerciale tra Ucraina e Cina.

Commissione Europea: un documento da evitare

Energy Policy – Europe takes powerLa politica energetica in Europa è ancora largamente (e inevitabilmente) una questione nazionale, nonostante i crescenti paletti messi messi dalla legislazione europea in materia di concorrenza e di ambiente.

Secondo quanto anticipato da Nick Butler, sarebbe in arrivo per la fine del mese un nuovo documento programmatico della Commissione Europea che procede proprio in questa direzione. La commissione Barroso II è infatti in uscita e si cerca così di dare un ultimo indirizzo prima del cambio della guardia.

I punti principali sarebbero tre e destano più di una perplessità. Il primo è la lotta alle esenzioni dal pagamento dei sussidi alle rinnovabili accordate da alcuni governi (soprattutto la Germania) ai grandi consumatori industriali di energia. La scelta tedesca serve a mantenere la competitività dei grandi produttori energivori ed evitare la delocalizzazione, ma non piace a Bruxelles perché sarebbe un aiuto di stato.

Anche il secondo punto riguardarebbe gli aiuti di stato ma avrebbe come principale destinatario il governo britannico, intenzionato a sussidiare tramite un prezzo di vendita garantito il nuovo reattore di Hinkley Point. L’art. 194 del TFUE prevede chiaramente l’autonomia dei singoli Paesi nel definire il paniere energetico, ma la Commissione vuole avere l’ultima parola (il che, per puro caso, potrebbe essere qui una buona notizia per i consumatori britannici).

Il terzo punto riguarderebbe invece la produzione di idrocarburi non convenzionali, su cui i diversi governi hanno posizioni molto distanti. La Commissione punterebbe a un quadro normativo europeo (prevedibilmente piuttosto farraginoso e restrittivo), che rallenterebbe le operazioni in quei Paesi dove il non convenzionale gode di una sostanziale approvazione. Le principali «vittime»: Regno Unito, Polonia, Romania.

La Commissione è attivamente impegnata in una lotta per accentrare potere decisionale e ciascuno ha la propria legittima opinione in merito. Il problema è che, se davvero questi fossero i punti centrali del documento programmatico, si tratterebbe di una visione molto poco pragmatica.

La Commissione sarebbe infatti ancora una volta esposta alle accuse di favorire la deindustrializzazione, di scoraggiare gli investimenti in Europa e di ostacolare la produzione interna di energia che non siano rinnovabili sussidiate.

Non esattamente il massimo, a quattro mesi da elezioni europee che si preannunciano molto favorevoli per i partiti anti-UE.

Royalties 2013: oltre 400 milioni

Royalties per la produzione di idrocarburi per anno contabile (2008-2013)Nonostante la forte dipendenza da importazioni, l’Italia resta un discreto produttore di idrocarburi. Da queste attività, spesso combattute a parole, gli amministratori locali e nazionali ricavano però un gettito tutt’altro che trascurabile, anche se spesso taciuto.

Secondo i dati appena pubblicati dal MiSE, il gettito delle royalties per l’anno contabile 2013 è stato di 420 milioni di euro. Di questi, 32 sono andati ai comuni, 195 sono andati alle regioni e 192 sono andati allo Stato.

Un record, certo. Ma anche negli anni precedenti non è andata male: tra il 2008 e il 2013, il gettito complessivo è stato di quasi 1,7 miliardi di euro. Di questi, 134 sono andati ai comuni, 860 alle regioni e 703 allo Stato.

Per approfondire: il foglio elettronico coi dati.

La Turchia e la sicurezza energetica europea

Energy, Turkey, the EU, the Adriatic basinSegnalo tre contributi molto interessanti pubblicati dallo IAI sulla Turchia e collegati al suo ruolo nella sicurezza energetica europea:

Sebbene sia a questo punto chiaro che le prospettive di accesso della Turchia all’UE siano le medesime dell’Ucraina, la cooperazione tra Ankara e i governi europei è quantomai importante per lo sviluppo del sistema infrastrutturale europeo.
Non bisogna tuttavia sopravvalutare il ruolo della Turchia: per quanto importante, nei prossimi decenni difficilmente dal Paese transiterà più del 5% dei consumi europei di gas (20-25 Gmc/a), ossia meno che dalla Tunisia. E anche qualora le più rosee aspettative dovessero realizzarsi, si arriverebbe al massimo al 10%.

Inoltre, la Turchia rappresenta anche un grande importatore di gas (46 Gmc nel 2012) e ha interessi convergenti rispetto ai consumatori europei quando si tratta della maggiore minaccia alla sicurezza energetica, ossia la stabilità dei Paesi produttori.

Diversa la questione quando si tratta di costi di realizzazione delle infrastrutture e di tariffe per il trasporto. Per questo, però, ai governi europei conviene essere coerenti con le scelte di fondo di politica economica degli ultimi decenni e lasciare che a occuparsi in prima linea della questione siano gli operatori.

Chi nelle diverse istituzioni sostiene il contrario ha probabilmente un forte interesse a usare la sicurezza energetica come pretesto per perseguire altri fini, sia nel dossier ucraino sia in quello turco.

L’inevitabile multipolarismo

I primi dieci produttori mondiali di petrolioSi chiude l’anno e come sempre l’imminente cambio di data offre la scusa per fare qualche riflessione sul futuro. La previsione è facile: il 2014 sembra destinato a proseguire la tendenza verso un assetto multipolare del sistema internazionale.

Chiaro, il superamento dell’unicità statunitense non è cosa dell’anno che viene. E nemmeno del decennio in corso. È però una traiettoria inevitabile: il sistema internazionale non sembra amare le situazioni di squilibirio e difficilmente farà eccezione per lo zio Sam.

Che poi, il multipolarismo cos’è? La coesistenza di tre o più grandi potenze in grado di perseguire autonomamente un’agenda a livello internazionale. Anche se con gradi diversi a seconda dei contesti regionali (la geopolitica non è solo il regno dei ciarlatani), il numero di attori in grado di contrapporsi agli interessi statunitensi è in aumento.

Le ricadute sui mercati dell’energia sono difficilmente prevedibili. I grandi mercati globali, tra cui quello petrolifero, si sono sviluppati grazie all’interesse degli Stati Uniti. Il loro relativo indebolimento non corrisponde però necessariamente al venir meno delle condizioni di funzionamento dei mercati globali, perché anche per gli attori emergenti rappresentano una modalità di approvvigionamento efficiente.

In questo contesto, la posizione dei produttori petroliferi (e in misura minore, di gas) è più forte. Perché come l’aumento del numero di produttori aumenta la sicurezza delle forniture, così  un moltiplicarsi dei consumatori offre maggiori garanzie che la produzione trovi un mercato.

Diverso è invece il discorso delle dinamiche complessive di prezzo e della preoccupante dipendenza di molti Paesi produttori da alte quotazioni del greggio. Per i governi che fanno spesa pubblica soprattutto grazie alle rendite petrolifere, una contrazione delle quotazioni può infatti voler dire instabilità.

Forse di questo fenomeno troveremo qualche esempio nel 2014.

Quanto è lontano il Levante

Quanto è lontano il LevanteLo sfruttamento del gas presente nei giacimenti del Mediterraneo orientale è una questione complessa e piuttosto delicata. La coltivazione di giacimenti sottomarini e la costruzione di infrastrutture di esportazione richiedono infatti grandi investimenti (nell’ordine dei miliardi di dollari), che gli operatori internazionali e gli istituti di credito sono pronti a fare solo se esiste una ragionevole certezza che i rischi di natura politica – se non direttamente militare – non siano troppo alti.

Partendo da queste premesse, difficilmente può venire in mente un posto peggiore delle coste orientali del Mediterraneo.

Tuttavia, trattandosi di giacimenti in mare, diversi operatori hanno deciso di accettare la sfida e avviare le operazioni di espolorazione e di estrazione. Il giacimento Tamar (250 Gmc; fonte: BMI) è già in produzione e arriverà a regime (4 Gmc/a) nel 2017, anno in cui dovrebbe anche inziare la produzione di Leviathan (530 Gmc; 16 Gmc/a). Gli altri giacimenti sono invece di piccole dimensioni oppure sono in fase di prospezione.

In totale, nel corso del decennio si avrà realisticammente una produzione non oltre i 20 Gmc/a, di cui il 40% deve andare per legge al mercato interno israeliano. Si parla dunque al massimo di 12 Gmc/a disponibili per l’esportazione in tempi relativamente certi.

Anche al netto dei problemi politici di definire una rotta (Turchia? Cipro?), non ci sono al momento i presupposti per avere un volume di esportazione tale da ripagare l’investimento di una condotta sottomarina (le stime arrivano a oltre 20 miliardi di dollari).

Molto più fattibile invece l’ipotesi di costruire un terminale di liquefazione (galleggiante o a terrra), che tra l’altro consentirebbe di dirigere i carichi sui mercati più remunerativi, ossia tendenzialmente su quelli asiatici, ma senza rinunciare a ogni altra opzione, Europa inclusa: a decidere è il prezzo (che peraltro attualmente si aggira intorno ai 40 centesimi di dollaro al metro cubo). Per gli operatori, in ogni caso la priorità resta  quella di coprire gli investimenti.

Si arriva così a un punto delicato: sebbene qualcuno sostenga il contrario, le eventuali esportazioni del gas del Mediterraneo Orientale verso i mercati europei avrebbero un impatto marginale (per non dire nullo). A fronte di importazioni attuali di 300 Gmc/a e attese a 350 Gmc/a al 2020 (fonte: IEA), 12 Gmc/a non farebbero di certo la differenza, soprattutto se paragonati con gli oltre 120 Gmc/a russi e i 100 Gmc/a norvegesi.

Nota: per chi volesse approfondire la questione del corridoio mediterraneo orientale, segnalo l’interessante nota di lavoro di Simone Tagliapietra (Towards a New Eastern Mediterranean Energy Corridor?) e la seconda sezione del Focus Sicurezza Energetica, a cura di Carlo Frappi.

Aggiornamento: John Roberts suggerisce anche la possibilità di utilizzare la tecnologica di compressione del gas senza liquefazione.