Stop al gas russo verso l’Ucraina: nessun problema per l’UE

Ukraine stops buying Russian gas, but Gazprom says it cut off serviceArriva il freddo e immancabilmente ritorna il tira e molla sulle forniture del gas tra Kiev e Mosca. I consumi giornalieri aumentano e parte del mercato europeo – tra cui l’Italia – continua a dipendere dal transito del gas russo attraverso l’Ucraina. Una situazione che conferisce al governo di Kiev un potere di ricatto, paradossalmente aumentato dalla crescente dipendenza del nuovo governo ucraino dal sostegno internazionale. La debolezza strutturale delle finanze pubbliche ucraine e la necessità per i governi europei di non mostrare pentimento per il sostegno al cambio di regime del 2014 legano infatti le mani alle parti.

L’operazione era già riuscita l’anno scorso, quando il governo di Kiev era riuscito a farsi pagare dall’Europa 3,1 miliardi di dollari per saldare i debiti con Gazprom più altri 1,5 miliardi per pagare in anticipo il gas russo destinato al mercato ucraino. Lo scopo per l’UE era quello di evitare che Naftogaz, non ricevendo più gas da Gazprom per via della morosità, si rifacesse utilizzando il gas destinato ai clienti europei stoccato nei giacimenti della parte orientale del Paese.

Ukrainian Gas Pipelines (© National Gas Union of Ukraine)

A inizio ottobre di quest’anno, la storia si è ripetuta. Naftogaz ha ricevuto un nuovo contributo europeo di 500 milioni, serviti per comprare 2 Gmc di gas russo necessari a riempire gli stoccaggi. A staccare l’assegno, la Banca Europea degli Investimenti e la Banca Mondiale.

In parallelo agli esborsi europei per pagare le importazioni di gas ucraine procede, peraltro, il sostegno fornito a Kiev dal Fondo Monetario internazionale, che ha già trasferito 10 miliardi di dollari , a cui si aggiungeranno altri 7,5 miliardi se saranno adottate almeno in parte le riforme richieste, tra cui la revisione dei prezzi del gas ai clienti finali.

La notizia di ieri dell’interruzione da parte di Naftogaz dell’acquisto di gas da Gazprom è collegata al fatto che il governo di Kiev ha finito i soldi per pagare nuove forniture. A differenza di quanto avrebbe detto Alexei Miller, però, non ci saranno problemi per l’approvvigionamento europeo di gas.

 consumi di gas in Ucraina e la capacità di stoccaggio utilizzata

Il fabbisogno ucraino di gas è infatti crollato a causa della crisi economica: nei primi otto mesi del 2015, l’Ucraina ha consumato il 30% di gas in meno rispetto allo stesso periodo del 2014. E si tratta del quarto anno consecutivo di calo. Dato che la produzione interna ucraina è rimasta invariata, la necessità di gas importato è fortemente diminuita.

Allo stesso tempo, gli stoccaggi ucraini a fine ottobre erano più pieni dell’anno scorso e a livelli analoghi a quelli del 2013. Non sembrano dunque esserci, come nel corso dell’ultimo inverno, le condizioni affinché si presentino problemi nella stabilità dei flussi di gas russo verso l’UE.

Per Gazprom, è naturale gridare all’allarme per ricordare ai governi europei la rilevanza del transito attraverso la rete ucraina. Per il governo di Kiev, la bandiera della sicurezza energetica europea è un utile strumento per chiedere nuovo sostegno agli sponsor europei. Per i governi europei, dunque, occorre sangue freddo e la capacità di immaginare misure affinché il ricatto ucraino non si ripresenti – puntuale – anche nei prossimi autunni.

L’ISIS e il business del petrolio

FT - Inside Isis Inc: The journey of a barrel of oilIl petrolio rappresenta notoriamente una delle principali fonti di finanziamento delle attività dell’ISIS. Per chi volesse approfondire il funzionamento e i numeri di questo business, segnalo una dettagliata inchiesta dal titolo Inside Isis Inc: The journey of a barrel of oil, liberamente accessibile a tutti sul sito di FT e ricca di cartine (a cui si aggiunge anche l’articolo Inside Isis Inc: how oil fuels the jihadi terrorists).

Brevemente, l’ISIS controlla una produzione in Siria stimata in 30-40.000 bbl/g, pari al 10% della produzione siriana prima della guerra, a cui si aggiungono 8.000 bbl/g in Iraq. Volumi in assoluto modesti, che dopo il crollo del prezzo del greggio si stima rendano qualcosa come 1,5 milioni di dollari al giorno, ma fondamentali nel contesto dell’area.

Secondo quanto riportato, l’ISIS è coinvolto nelle attività di produzione e di raffinazione, ma dopo la raffinazione e la vendita all’ingrosso solitamente non è coinvolto nelle attività di scambio, vendita al dettaglio o contrabbando nelle aree al di fuori del proprio controllo, come il resto della Siria o la Turchia. Queste attività sarebbero lasciate agli intermediari, che commerciano i prodotti petroliferi per metà in Siria e per metà in Iraq.

Un elemento particolarmente interessante è che il petrolio non è raffinato solamente per farne dei prodotti per i veicoli. Una parte importante della produzione – quella a più bassa qualità – serve infatti a rifornire la miriade di generatori di elettricità che rappresentano praticamente l’unica fonte di corrente elettrica nell’area.

Come sottolinea l’articolo, le attività di raffinazione e vendita del petrolio non solo coinvolgono moltissimi commercianti e operatori che non sono dell’ISIS ma ci lavorano insieme e si guadagnano così da vivere, ma consentono anche di rifornire combustibile e di elettricità la popolazione dell’area controllata (circa 10 milioni), che altrimenti non avrebbe nemmeno gli elementi base della propria quotidianità.

Come ricorda l’inchiesta, la coalizione è restia a colpire le vie di commercio dei prodotti petroliferi per il fondato timore di alienarsi il consenso della popolazione locale. Se il calo dei prezzi del greggio ha ridotto la domanda al di fuori delle aree controllate dall’ISIS, il fabbisogno energetico della popolazione sotto il controllo del califfato resta un importante elemento economico e politico.

Aggiornamento: segnalo un’ulteriore parte dell’inchiesta, che riguarda la cooperazione tra la Siria e l’ISIS nella gestione di alcuni impianti elettrici, sopratutto alimentati a gas (Isis Inc: jihadis and Syria forced into Faustian gas bargain).

SLIDES – Energia e geopolitica: il ruolo delle rinnovabili

Energia e geopolitica: il ruolo delle rinnovabiliSono disponibili qui le slides relative al mio intervento «Energia e geopolitica: il ruolo delle rinnovabili», tenuta lunedì 12 ottobre a Firenze presso il Fondazione Cesifin Alberto Predieri, nell’ambito del dibattito Fonti energetiche rinnovabili: verso una politica energetica integrata.

L’intervento partiva dalla considerazione che parliamo di geopolitica dell’energia perché c’è una interdipendenza economicamente molto significativa tra importatori ed esportatori di fonti fossili. Il gas e il carbone sono importanti, ma in termini di controvalore il petrolio è dominante.

Geopolitica ed economia: il controvalore delle importazioni fossili (al loro delle esportazioni)

Se si guarda alle rinnovabili, nell’ultimo decennio si sono dimostrate un’alternativa concreta nel settore della generazione elettrica, pur dipendendo ancora in larga misura dai sussidi. Nella generazione le rinnovabili hanno così iniziato a competere con le centrali termoelettriche a carbone e gas, come apparso evidente in Europa.

Questa competizione non ha tuttavia toccato il petrolio, che è concentrato soprattutto nel settore dei trasporti. In questo settore, le rinnovabili non hanno invece al momento nessuna reale capacità competitiva: i mezzi elettrici sono limitati dall’assenza di batteria abbastanza potenti, anche trascurando il fatto che l’elettricità è ancora in maggioranza generata da fossili. I biocombustibili sono troppo onerosi e consumano attualmente troppo suolo per essere prodotti in scala sufficiente da sostituire in misura decisiva i derivati del petrolio.

L’impatto geopolitico delle rinnovabili è destinato a restare moderato in Europa e quasi nullo altrove fintanto che queste fonti non saranno in grado di competere in modo credibile nel settore trasporti, sostituendo il petrolio. E salvo salti tecnologici imprevedibili, questa prospettiva sembra ancora piuttosto distante.

Libia: il ruolo delle esportazioni energetiche e l’importanza per l’Italia

Libia, Gentiloni: il negoaziato è alla stretta finaleL’arrivo di un compromesso tra le fazioni libiche non troppo sgradite all’Occidente e alla Lega Araba parrebbe avvicinarsi, anche se restano tante incognite. Prima tra tutte, la possibilità che in sostegno del nuovo governo di unità nazionale possa arrivare una missione internazionale, come da tempo invocato dal governo di Tobruk. Intanto, ieri il Consiglio dell’UE ha dato il via libera alla seconda fase della missione navale nel Mediterraneo, che ora agirà fino al limite delle acque territoriali libiche.

Qualunque sviluppo arriverà nei prossimi mesi, il caos libico sembra destinato a continuare ancora a lungo. Intanto, l’Italia resta naturalmente in prima fila tra i Paesi più interessati a una stabilizzazione della Libia, non solo per bloccare i flussi immigratori ma anche per garantire la stabilità dei flussi energetici dal Paese nordafricano.

Guardando al ruolo della Libia nell’approvvigionamento energetico nazionale negli ultimi anni, emergono due fatti rilevanti. Il primo è che il gas e il petrolio libico sono importanti, ma non fondamentali per la sicurezza energetica italiana.

Quota della Libia sul totale delle importazioni italiane

Nel 2008, i flussi dalla Libia sono arrivate a rappresentare il 30% (24,5 Mt) del greggio importato e il 13% (9,6 Gmc) del gas importato in Italia. Con lo scoppio della guerra civile, i flussi dalla Libia sono crollati, senza tuttavia conseguenze rilevanti per gli approvvigionamenti italiani. Nel caso del petrolio, per via dell’esistenza di un mercato globale liquido, mentre nel caso del gas per via dell’esistenza di un sistema di importazione ampio e diversificato.

Il secondo fatto rilevante è che i flussi dalla Libia sono continuati in modo notevolmente stabile anche nell’epoca post-Gheddafi, nonostante la guerra civile. In particolare, il gas naturale ha ripreso a fluire (oscillando su base stagionale) a circa due terzi della capacità massima del gasdotto Green Stream, ossia a un ritmo di circa 500 Mmc al mese. A riprova del fatto che i giacimenti – Mellitah è offshore, ma gli impianti sono sulla costa – e le infrastrutture di trasporto sono stati adeguatamente protetti anche nel vuoto di potere formale della Libia post-Gheddafi.

Andamento delle importazioni mensili di gas dalla Libia

Che le infrastrutture energetiche siano ancora tutto sommato integre dopo quattro anni di guerra non deve stupire: le esportazioni di idrocarburi rappresentano infatti l’unica fonte di liquidità legale ancora in piedi per l’economia libica. Le esportazioni di petrolio vanno avanti essenzialmente dai terminali della parte orientale del Paese, sotto controllo del governo di Tobruk. Le esportazioni di gas avvengono invece esclusivamente dal gasdotto verso l’Italia ubicato nella parte occidentale, sotto il controllo del governo di Tripoli. Le rendite derivanti dalle esportazioni confluiscono, tutte insieme, nei conti nella Banca centrale libica, che poi le smista alle diverse fazioni che controllano le differenti regioni del Paese.

Controvalore delle importazioni italiane dalla Libia

Il danneggiamento di alcune infrastrutture di produzione ed esportazione petrolifera ha ridotto le esportazioni di greggio, aumentando l’importanza relativa delle esportazioni di gas, più stabili in controvalore e in volumi. Tuttavia il petrolio, esportato non solo in Italia, resta la fonte principale di finanziamento di tutte le fazioni impegnate nella guerra civile.

Controvalore delle importazioni petrolifere dalla Libia

Il valore totale delle rendite da esportazione petrolifera è stato anche influenzato profondamente dall’andamento delle quotazioni petrolifere. In particolare, nell’ultimo anno il crollo dei prezzi del greggio si è sommato alla riduzione dei volumi riducendo la nuova liquidità disponibile per la Banca centrale libica, costretta ad attingere anche alle riserve. Una tendenza che potrebbe continuare nei prossimi anni, data la possibile perdurante debolezza dei prezzi del greggio e la consistenza delle riserve finanziarie (76,6 miliardi di dollari a fine 2014) .

Controvalore delle importazioni petrolifere dalla Libia e prezzo del greggio

Nel complesso, l’esposizione della sicurezza italiana rispetto a un rischio di interruzione dei flussi dalla Libia è tutto sommato contenuta (sempre ammesso che le esportazioni di gas dall’Algeria attraverso la Tunisia restino stabili). Viceversa, l’importanza dell’accesso al mercato italiano per le diverse fazioni al potere in Libia continua a crescere, anche considerando che attualmente l’altra forma di finanziamento oltre agli idrocarburi è quella derivante dal transito dei migranti. Un’attività che nei prossimi mesi, tra inverno incipiente e missione EUnavfor Med, è con ogni probabilità destinata a conoscere una contrazione.

PS: qui il file excel coi dati relativi alle importazioni petrolifere dalla Libia dal 1995 al 2014, divise per Paese.

Egitto: Eni e il giacimento Zohr

Eni scopre nell'offshore egiziano il più grande giacimento a gas mai rinvenuto nel Mar MediterraneoEni ha diffuso ieri la notizia della scoperta di ingenti quantità di gas presso il prospetto esplorativo di Zohr, nell’offshore egiziano del Mediterraneo. La scoperta è di grande rilevanza, sia per il Paese mediorientale sia per la compagnia nazionale.

A giugno, Eni aveva siglato un accordo con il governo egiziano per investimenti nell’upstream del Paese pari a 1,5 miliardi entro la fine del decennio. L’accordo, oltre a consolidare la decennale presenza di Eni in Egitto, aveva anche consentito una parziale soluzione alla questione dei debiti commerciali egiziani verso la compagnia italiana, pari a 966 milioni di euro.

Secondo le stime, la quantità di gas presente nel giacimento sarebbe pari a 850 Gmc, ossia qualcosa come 14 volte i consumi italiani nel 2014, o a 16 volte la produzione di gas egiziana dello stesso anno. Si tratta di volumi notevoli, tuttavia la cifra non si riferisce alle riserve provate, ossia il gas presente con relativa certezza e producibile in modo economico. Si tratta invece, come il comunicato stampa dice chiaramente, della stima più alta relativa al gas in posto (in place), ossia tutto il gas che dalle indagini preliminari si calcola possa essere presente nella formazione geologica, a prescindere dal fatto che sia tecnicamente ed economicamente producibile.

EIA - Stylized representation of oil and natural gas resource categorizations (not to scale)

La quantità di gas che può essere effettivamente recuperato e commercializzato con profitto varia molto a seconda della conformazione geologica, delle tecniche adottate, dal costo del capitale impiegato per lo sfruttamento. Può arrivare fino all’80-90%, ma può anche attestarsi su percentuali considerevolmente più basse. Inoltre, le stime iniziali si basano su un numero limitato di dati empirici, mentre la reale consistenza dei giacimenti può essere – nel bene e nel male – confermata solo procedendo con le attività di perforazione.

In altri termini, la rilevanza della scoperta è innegabile e conferma la leadership europea di Eni nell’esplorazione, ma l’impatto dello sfruttamento richiederà tempo e molti dati aggiuntivi prima di essere valutato adeguatamente. Se la consistenza delle risorse presenti nel prospetto sarà confermata, in via preliminare si può ipotizzare una produzione di picco tra i 20 e i 30 Gmc all’anno, con un po’ di ottimismo. Ci vorranno tuttavia ancora diversi anni prima di vedere effettivamente il giacimento in produzione, probabilmente alla fine di questo decennio o all’inizio del prossimo, visto l’eccesso di offerta in vista a livello globale.

La scoperta di Zohr è importante per Eni, ma lo è anche (e molto) per l’Egitto. Il Paese ha oggi una capacità di liquefazione per l’esportazione di circa 16 Gmc/a, ma nel 2014 le esportazioni sono state pari a meno di 1 Gmc. La riduzione drammatica dei volumi esportati è dipesa dall’aumento della domanda interna, guidata dalla crescita demografica ed economica, e dalla contrazione della produzione. Questa doppia dinamica, dopo aver portato all’azzeramento delle esportazioni, ha costretto ora l’Egitto a diventare un importatore di GNL, grazie all’entrata in funzione quest’anno di un terminale galleggiante di rigassificazione (la FSRU Höegh Gallant).

Produzione, consumi ed esportazioni di gas in Egitto

La scoperta di Zohr potrebbe consentire all’Egitto di tornare a esportare volumi significativi di gas, riducendo il passivo di bilancia commerciale. Una possibile soluzione tecnica per l’esportazione sarebbe quella di portare il gas fino alla costa (170 km) via tubo e poi instradarlo ai terminali di liquefazione esistenti (Damietta e Idku). Resta tuttavia da vedere se tutti i volumi prenderanno la strada dell’esportazione, o se una parte finirà col rifornire il mercato interno egiziano.

In ogni caso, la scoperta è economicamente rilevante, ma dal punto di vista geopolitico e di sicurezza le conseguenze sull’area mediorientale sembrano essere limitate. Grazie alla scoperta, l’Egitto potrebbe ridurre il saldo netto delle importazioni di GNL, che tuttavia pongono pochi problemi di sicurezza, grazie all’ampia e crescente disponibilità di fornitori diversi. Per quanto riguarda la sicurezza – in senso stretto – degli impianti, il posizionamento offshore garantisce una maggiore difendibilità delle installazioni rispetto ad attacchi terroristici.

Dal punto di vista dell’utilizzo del nuovo gas egiziano presso altri mercati regionali, è da escludere ogni ipotesi di forniture a scopo politico, giacché Eni possiede i diritti di sfruttamento del giacimento e instraderà le eventuali esportazioni verso i clienti in grado di offrire il profitto maggiore, indifferentemente in Europa, in Medio Oriente o altrove. Con il benestare del governo egiziano, che ha un gran bisogno di Eni e dei suoi investimenti sia per fare cassa sia per sostenere la crescita economica di lungo periodo.

Obama colpisce il carbone, ma a contare sono i consumi cinesi

Il presidente statunitense ha annunciato un piano di riduzione delle emissioni più stretto del previsto, con l’obiettivo di un taglio del 32% rispetto ai valori del 2005 entro il 2030. Tante le componenti che contribuiranno al risultato, dall’aumento dell’efficienza alla diffusione delle rinnovabili, ma l’elemento cruciale di questa accelerazione delle politiche climatiche statunitensi sarà la riduzione dell’utilizzo del carbone nella generazione elettrica, a favore in primo luogo del gas naturale, economico e con emissioni pari a quasi la metà.

La data dell’anno base (2005) è convenientemente posta alla vigilia dell’esplosione della produzione del gas da argille negli Stati Uniti e del crollo dei prezzi del gas in Nord America. In pratica, la sostituzione del carbone col gas sta già avvenendo, grazie a meccanismi di mercato. E se le tecnologie di accumulo elettrico continueranno a svilupparsi, anche il solare potrebbe erodere quote significative.

Si attendono i dettagli del piano di Obama e le contromosse dell’opposizione interna, ma la chiave del successo nel raggiungere l’obiettivo del -32% sarà quella di ridurre drasticamente la produzione delle centrali a carbone più vecchie. Ottima cosa, soprattutto perché si ridurranno gli inquinanti locali senza aumentare la dipendenza dall’estero, visto che sia il gas sia il fotovoltaico sarebbero fonti interne. Ma cambierà radicalmente la partita globale della lotta al cambiamento climatico? Guardiamo qualche dato.

L'evoluzione dei consumi di carbone delle principali economie (1965-2014)

Non solo la Cina è il principale consumatore di carbone al mondo da 25 anni, ma è arrivata a consumare più carbone di tutte le altre economie del mondo messe insieme.I principali consumatori di carbone al mondo (2014)

Grazie al costo contenuto, il carbone rappresenta infatti stabilmente la principale fonte di energia delle grandi economie emergenti, una situazione che nelle previsioni dell’IEA è destinata a continuare nei prossimi decenni. Nello scenario di riferimento, i consumi cinesi dovrebbero crescere costantemente anche nel prossimo decennio, arrivando a 10.200 Mtep nel 2030.
La quota del carbone sui consumi di energia primaria (2014)

Insomma, quando si parla di carbone (e di emissioni), si parla in primo luogo di Cina. Il contributo di tutti è utile, ma senza una seria riduzione delle emissioni cinesi, gli sforzi degli altri restano marginali: basti pensare che le emissioni cinesi già oggi sono quasi 2,5 volte quelle di tutti i 28 Paesi UE messi insieme. E che nel 2020 saranno il doppio di quelle statunitensi. Intanto, però, il governo di Pechino ha già annunciato che potrebbero continuare crescere fino al 2030.

La mossa di Obama, oltre a placare la sinistra liberal, dovrebbe in teoria servire a fare pressioni sulla Cina e sugli altri Paesi emergenti in vista della COP21 di Parigi, in programma a dicembre. Sarà tuttavia difficile convincerli a rinunciare al carbone e rallentare così il proprio sviluppo senza fornire alternative energetiche altrettanto economiche. Come peraltro accaduto agli statunitensi, che hanno preso sul serio la riduzione delle emissioni da quando dispongono del gas non convenzionale.
D’altronde, mica tutti sono autolesionisti come gli europei.