Quale futuro per l’energia mondiale?

oeSegnalo una mia intervista per Orizzontenergia, dedicata ad alcuni grandi temi di attualità: boom asiatico, rivoluzione americana, fossili vs rinnovabili, competitività vs clima e lotta ai cambiamenti climatici.

Le rinnovabili hanno futuro anche senza sussidi? Sono davvero sostenibili?

Assolutamente sì. Oltre all’idroelettrico, finalmente anche le rinnovabili discontinue si stanno avvicinando sempre di più alla grid parity, almeno in alcuni mercati occidentali. Ci vorrà tempo, ma la loro quota nel paniere energetico è destinata a crescere nei prossimi decenni, anche senza sussidi. Un elemento chiave sarà sicuramente quello dell’accumulo elettrico, per il quale si vedono segnali interessanti. In ultima analisi, tutto dipende dal ritmo dell’innovazione tecnologica.

In un’ottica di lungo periodo, a ben vedere i sussidi hanno fatto più male che bene. Certo, hanno arricchito molti, ma hanno distorto gli incentivi per gli operatori a cercare maggiore efficienza o prestazioni migliori. Se si sta su un mercato truccato, le pressioni sistemiche a dare il meglio sono inevitabilmente ridotte.

Investire in ricerca sarebbe stato sicuramente una scelta più saggia, anche per le ricadute in termini industriali. Ma ormai l’errore è stato fatto, l’importante è non ripeterlo in futuro. Se si vuole premiare le fonti a emissioni zero e ridurre l’uso delle fonti fossili, bisogna dare un prezzo alle esternalità negative generata da queste ultime, in termini di inquinamento locale e di effetto climalterante.

Il resto dell’intervista è accessibile qui.

L’uscita dell’Italia dal Trattato sulla carta dell’energia

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L’annuncio dell’uscita dell’Italia dal Trattato sulla carta dell’energia è passato praticamente inosservato perfino tra gli addetti ai lavori per un trimestre, fino a quando la notizia non è stata battuta da SQ.

Il provvedimento risale infatti alla Legge di stabilità di dicembre e prevede il taglio di una serie di spese superflue dovute alla partecipazione italiana a organizzazioni internazionali. Nella revisione della spesa è caduta anche la partecipazione italiana al Trattato sulla carta dell’energia, siglato nel 1994 per favorire gli investimenti nel settore energetico tramite la protezione degli investimenti e il commercio nel settore dell’energia.

La decisione, oltre a far risparmiare all’Italia 450.000 euro all’anno, non sembra destinata ad avere particolari conseguenze, visto che esiste un’ampia serie di altre disposizioni vincolanti a protezione degli investimenti in Italia e di quelli italiani all’estero.

Inoltre, il trattato ha già perso in ogni caso gran parte del proprio senso. Il suo scopo era infatti quello di favorire gli investimenti energetici e i commerci con la Russia attraverso le ex repubbliche sovietiche. La Russia è però uscita dal trattato nel 2009 senza mai averlo ratificato, lasciando così il trattato e il suo Segretariato basato a Bruxelles (il vero centro di costo) privi di una vera e propria utilità.

Per un approfondimento sulla questione, segnalo un post di Francesca Morra e Lorenzo Parola Any consequences stemming from Italy’s withdrawal from the Energy Charter Treaty? pubblicato dall’ISPI Energy Watch.

Dubbi sull’industria nucleare francese

NYT - French Nuclear Model FaltersSegnalo un interessante articolo pubblicato sul NYT a proposito del periodo non facile che l’industria nucleare francese (ossia l’industria nucleare europea) sta vivendo in questi anni.

In particolare, la nuova generazione di centrali nucleari (EPR) non è all’altezza delle aspettative. I due esemplari in costruzioni, Flamanville (Francia) e Olkiluoto (Finlandia), sono in forte ritardo e stanno accumulando un aumento dei costi pari a un multiplo della spesa inizialmente prevista.

Nel caso di Flamanville, dove per il reattore si è usato acciaio francese anziché giapponese, si teme addirittura di dover sostituire alcuni componenti a causa della qualità insufficiente dell’acciaio. A riprova che il problemi dell’industria europea toccano tanti comparti strategici.

Nel frattempo, i cinesi stanno costruendo 23 nuove centrali per il mercato domestico e una in Pakistan, mentre i russi ne stanno costruendo 9 per il mercato domestico e stanno negoziando diversi impianti in giro per il mondo. Perfino negli Stati Uniti ci sono 5 impianti in costruzione, a riprova del fatto che il problema del nucleare è soprattutto un problema del nucleare europeo.

Forse varrebbe la pena di pensare al nucleare francese non come un vezzo di Parigi o un’eredità del passato, ma come un punto di forza di tutta l’industria (energetica e non) europea. Se si vuole una vera decarbonizzazione nel lungo periodo, pannelli e pale eoliche difficilmente possono bastare.

Può reggere il modello di business dello shale oil?

Sohn Investment Conference Presentation, May 4, 2015David Einhorn, noto per aver messo in dubbio la stabilità finanziaria di Lehman Brothers nel 2007, ha fatto qualche giorno fa un’interessante presentazione nella quale attacca i fondamenti delle principali società che sfruttano di shale oil statunitense (e non quello che si occupano principalmente di shale gas, che invece definisce competitive).

Se avesse ragione, si tratterebbe di un fatto epocale, giacché l’aumento della produzione statunitense è valso da solo alcuni milioni di barili di produzione giornaliera, contribuendo in modo determinante all’eccesso di offerta che ha fatto crollare le quotazioni del greggio l’anno scorso. Se i fondamenti economici della produzione di shale oil fossero davvero meno solidi di quel che comunemente creduto, ci sarebbero forti ripercussioni sia sui mercati finanziari (chi ha prestato i soldi alle società) sia quelli petroliferi (dove l’eccesso di offerta potrebbe venir meno).

Come mette in evidenza FT, Einhorn sottolinea soprattutto tre aspetti. Il primo riguarda il modo in cui le società riportano i ricavi, in particolare non tenendo adeguatamente conto del fatto che le spese in conto capitale non creano un asset, ma anzi lo riducono (estraendo l’olio dalle concessioni).

In secondo luogo, Einhorn si focalizza sui flussi di cassa come indicatore della salute delle imprese. Dal 2006, la differenza cumulata tra quanto speso dai principali produttori di shale oil aper acquisire diritti di trivellazione e produrre è stata inferiore a quanto speso di circa 80 miliardi di dollari. In pratica, i produttori di shale oil hanno fin qui bruciato liquidità, restando a galla solo grazie a ulteriori afflussi di capitali.

In terzo luogo, Einhorn sostiene che gli investitori convinti che il prezzo del greggio sia destinato a salire farebbero meglio a investire direttamente sui prodotti finanziari collegati al petrolio piuttosto che sulle società di produzione da shale oil, che resterebbero non competitive.

Come nota FT, la situazione merita attenzione, ma forse non è grave come Einhorn sostiene. Quanto ai flussi di cassa, i diritti acquisiti e l’expertise accumulata consentono ai produttori di continuare a produrre anche in futuro e a costi decrescenti.

Proprio nei costi si trova in fondo la risposta ai dubbi (legittimi) di Einhorn sulla sostenibilità dell’industria statunitense dello shale oil statunitense. In risposta al crollo dei prezzi del greggio, gli operatori hanno tagliato drammaticamente i costi e aumentato l’efficienza delle proprie operazioni. Chi riuscirà a farlo meglio resterà sul mercato, gli altri saranno travolti progressivamente, in base a quanto a lungo le quotazioni del greggio resteranno sotto i costi di produzione.

Ci saranno vittime, insomma, ma molti produttori si sono dimostrati parsimoniosi, innovativi e resilienti: probabilmente lo shale oil statunitense è destinato a restare un elemento dei mercati petroliferi mondiali anche in futuro.

Commissione vs Gazprom: cinque opinioni

NGE - Five views on the EC's case against Gazprom In un articolo su NaturalGasEurope, Sergio Matalucci ha raccolto cinque opinioni sull’azione della Commissione contro Gazprom. Qui sotto ripropongo la mia.

Will the move of European Commissioner for Competition Margrethe Vestager escalate tensions between Europe and Russia, and between Russia and Ukraine?

I don’t think that the Statement of Objections could be a game changer. Between Gazprom and its European customers there is a long term relationship, based on structural factors: huge Russian reserves of natural gas, existing infrastructure system, unavoidable European dependence on imports. Indeed, a large base for a common interest.

In any case, Gazprom’s business practices have already been changing for more than a decade. Destination clauses have been scrapped from contracts with Eni in 2003, for instance. And since the beginning of the economic crisis, intense renegotiations involved Gazprom and all its majors customers in Europe, leading to the introduction of a partial indexation to spot prices, in several cases. The EC’s action will accelerate an already existing pattern of inevitable evolution in the business model of Gazprom, at least in Europe.

The case is politically sensitive, of course. And in the short term it may significantly raise tensions between Bruxelles and Moscow, but long-term common interests are larger than short-term incidents. I think that a palatable solution for all the parties involved will emerge, eventually. As regards Ukrainian situation, at the moment I don’t see a significant risk of a spillover effect, since there is no connection between the two issues. By the way, Eastern European countries are already re-exporting Russian gas in Ukraine. However, if the situation worsens significantly, every issue may become more politicised. But this is another story.

Le risposte di Gilles Darmois, Irina Mironova, Stephen Blank e Sohbet Karbuz le trovate qui.

Terna: RAB e priorità di investimento

IEW - Mendl’s patisserie and the Country of NimbyLa trasmissione di energia elettrica in Italia è svolta da Terna, la società costituita nel 1999 all’interno di Enel e passata successivamente sotto il controllo di Cassa Depositi e Prestiti (Enel è uscita definitivamente nel 2012).

Terna opera in regime regolato, data la natura particolare del servizio che svolge, e per attrarre investimenti la legge prevede un meccanismo di remunerazione predeterminata, chiamata Regulatory Asset Base, il cui costo finisce nelle bollette.

Il meccanismo consente grandi volumi di investimenti, ma crea degli effetti distorsivi molto rilevanti, come mette in luce un post dell’ISPI Energy Watch, Mendl’s patisserie and the Country of Nimby.