Gazprom: fine del monopolio?

GazpromGazprom potrebbe essere privata del monopolio sull’esportazione di gas naturale russo. La notizia ha avuto una certa eco nei giorni scorsi e sarebbe un sintomo del cambiamento dei rapporti di forza e degli allineamenti all’interno dei vertici del potere russo, anche se con qualche distinguo.

I fatti: Gazprom gode di una posizione egemonica fin dal momento della sua costituzione, tradottasi in un monopolio di fatto a partire da inizio anni Duemila e in un monopolio legale dal 2006.

Ora però le cose starebbero cambiando: da un lato, l’ascesa di Rosneft – altro grande colosso di Stato – crea pressioni per un’apertura alla concorrenza tutta interna alle aziende di Stato. Dall’altro lato, la crescente necessità di ricorrere a capitali e tecnologie stranieri per sfruttare i nuovi giacimenti crea anche una pressione esterna da parte dei partners internazionali, che preferirebbero evitare l’intermediazione coatta di Gazprom per l’accesso ai mercati internazionali.

La possibile evoluzione non va tuttavia sopravvalutata: il superamento del monopolio riguarderebbe infatti in ogni caso solo il GNL, ossia al massimo alcune decine di Gmc, in Oriente (Sakhalin, già operativo) e nell’estremo Nord (Yamal, ancora in fase di studio). Le esportazioni via tubo, nell’ordine dei 200 Gmc, resteranno invece saldamente sotto il controllo di Gazprom.

Infine, occorre considerare che il superamento del monopolio di Gazprom, anche se dovesse in futuro estendersi ai gasdotti, non implicherà necessariamente un allentamento del controllo diretto del governo russo sulle attività del gas, ma un semplice cambiamento delle modalità di organizzazione del settore. Non molto diversamente da quanto avvenuto diverse volte in epoca sovietica.

Il mondo dell’energia nel 2030 secondo BP

Oltre ad essere una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo, la British Petroleum (BP) è nota perchè pubblica da decenni un’affidabile BP Statistical Review 2012sul mondo dell’energia.

Tuttavia, dal 2011 BP produce anche un Energy Outlook 2030, in cui cerca di evidenziare quali sono le tendenze in atto e le forze che sottostano ai cambiamenti nel settore energetico, con lo scopo di mostrare come sarà la situazione tra 20 anni.

Il quadro tracciato è piuttosto ricco di dettagli. In primo luogo la domanda di energia crescerà di circa il 40%, soprattutto a seguito dell’espansione demografica ed economica dei paesi emergenti. L’aumento della domanda sarà fortunatamente limitato dai notevoli guadagni in efficienza energetica, che sono attesi concretizzarsi in tutti i settori e in tutte le aree del globo, consentendo così all’offerta di tenere il passo con la domanda.

Non ci sarà il temuto peak oil, sopratutto a seguito dell’esplosione dell’estrazione di gas e petrolio da scisti, che sta avendo e avrà luogo principalmente in Nord America (altrove le condizioni legali, sociali ed economiche non saranno altrettanto favorevoli). Cambieranno però i flussi energetici: il Nord America diventerà sostanzialmente indipendente, mentre l’Asia orientale e meridionale assorbirà quote crescenti di energia dal resto del mondo. Significative potranno essere le conseguenze geopolitiche di questo sviluppo.

Le rinnovabili (soprattutto nei paesi OCSE), il nucleare e l’idroelettrico (soprattutto nelle economie emergenti) accresceranno il loro peso nel mix energetico, che però rimarrà ancora largamente incentrato sui combustibili fossili (con quote sempre più simili per petrolio, carbone e gas).

Il petrolio dunque non si esaurirà, ma le emissioni clima-alteranti cresceranno di non poco (+26%), ponendo rischi che devono essere attentamente valutati.

Infine, il vettore energetico preferito sarà sempre più l’energia elettrica.

Un caveat è tuttavia d’obbligo. Come per tutte le previsioni a lungo termine, anche queste elaborazioni della BP si basano su ipotesi semplificatrici e su assunzioni che eventi del tutto inattesi potrebbero stravolgere e non di poco. In questo senso è un peccato che la pubblicazione non indichi gli intervalli di confidenza per le previsioni e non spighi che accorgimenti e che prove di robustezza siano eventualmente state adottate.

Adeguatezza e sicurezza nel mercato interno dell’energia

Sono state pubblicate le presentazioni dei relatori che dieci giorni fa si sono incontrati a Fiesole alla Florence School of Regulation per parlare di sicurezza e adeguatezza della capacità nel mercato interno dell’energia elettrica.

Tra i partecipanti vi sono stati numerosi esponenti delle autorità di settore e della Commissione europea. Un’ottica dunque non solo accademica; anzi, a prevalere sono state considerazioni emerse nella gestione pratica dei sistemi elettrici europei e non.

Per chi volesse avere un idea più dettagliata dei temi discussi e dei riferimenti fatti è possibile scaricare le presentazioni direttamente dal sito della scuola.

Chissà se anche qualche membro dell’attuale competizione elettorale si soffermerà qualche minuto su questi argomenti nelle prossime due settimane…

Le conseguenze radiologiche dell’incidente di Fukushima

La sicurezza energetica viene intesa normalmente come la disponibilità di energia a prezzi abbordabili. Tuttavia, con sicurezza si traduce in italiano anche il concetto inglese di safety.

Negli ultimi anni eventi disastrosi come l’incendio della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico o l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima in Giappone hanno sottolineato l’importanza di questo aspetto e la gravità, in termini umani e ambientali, degli incidenti che possono accadere nell’industria energetica.

Proprio dell’incidente nucleare accaduto in Giappone nel marzo del 2011 si parlerà lunedì prossimo ad una conferenza presso lo IUSS di Pavia. Ad intervenire sarà il prof. Pier Roberto Danesi, ex-direttore dei Laboratori sulle Applicazioni Nucleari della IAEA, il quale proverà ad analizzare scientificamente le conseguenze radioattive del disastro, senza tuttavia cadere troppo nel tecnicismo.

I mercati dell’energia nell’Europa centro-orientale

Segnalo una pregievole iniziativa che si terrà tra il 10 e il 15 marzo a Eger, non lontano da Budapest, organizzata dal Rajk Laszlo College della Corvinus Universtiy. L’evento, chiamato un pò enfaticamente Central European Conference 2013, raccoglie brevi cicli di lezioni rivolti a studenti universitari e giovani ricercatori che vogliano approfondire e dibattere alcuni temi dell’integrazione e delle politiche europee.

Uno dei percorsi più interessanti tra quelli proposti è sicuramente quello sui mercati dell’energia nell’Europa centro-orientale, mercati che spesso devono subire le decisioni e gli sviluppi di quanto accade nei Paesi ben più grandi che si trovano tanto a Est (Russia), quanto a Ovest (Germania e Italia).

Ad intervenire non saranno solo accademici, ma soprattutto professionisti del settore, provenienti in particolare dall’azienda ungherese MOL e dalla tedesca E.on.

Per gli interessati l’iscrizione gratuita va fatta prima del 15 febbraio.

Le conseguenze inaspettate dello shale boom

La NASA ha recentemente pubblicato sul suo sito un’immagine notturna scattata dallo spazio (riportata anche dal FT), che illustra in modo piuttosto inquietante un’effetto indesiderato, e se vogliamo inaspettato, del recente boom del gas da scisti.

La foto mostra come l’area occidentale del North Dakota, uno degli stati meno abitati degli USA (densità 3,7 abitanti/km2 – tanto per capirci la Lombardia ha una densità di 420 ab./km2) e dove più è cresciuta negli ultimi anni l’attività estrattiva legata allo shale gas e allo shale oil (Bakken formation), sia “illuminata a giorno” a causa del gas flaring, la pratica di bruciare il gas naturale associato al petrolio che non si riesce a commercializzare economicamente.

La ragione di questo spreco (si parla del 30% del gas estratto) è semplice. Il boom dello shale ha depresso talmente tanto i prezzi del gas nel Nord America, che a molte società petrolifere non conviene realizzare i gasdotti e le altre infrastrutture necessarie a convogliare il gas verso i centri di consumo. Piuttosto che far ciò, si preferisce liberare il gas nell’atmosfera (gas venting) o bruciarlo all’uscita del pozzo. In ogni caso si verifica uno spreco e si crea una nuova e non trascurabile fonte di inquinamento.

Lungi dal voler esprimere un giudizio negatico sull’estrazione del gas da scisti, la mia intenzione qui è solo quella di sottolineare come sia spesso difficile valutare a priori i costi e i benefici di una certa attività umana a causa delle numerose “unintended consequences” che si generano.

Alcuni esperti hanno sottolineato come lo shale gas abbia permesso agli USA di ridurre il consumo di carbone nella generazione elettrica e di limitare le emissioni clima-alteranti più di quanto abbia fatto l’Europa negli ultimi 2 o 3 anni. Siamo sicuri che se si contassero le emissioni legate al gas flaring e al gas venting la bilancia sarebbe ancora positiva?

Come spesso accade, il diavolo si annida nei dettagli…