Il ritorno del nucleare giapponese

FT - Japan poised to revive nuclear powerA tre anni dall’incidente della centrale di Fukushima, il governo giapponese sembra intenzionato a riavviare le centrali nucleari del Paese. L’Autorità per la regolazione del nucleare ha infatti certificato per la prima volta la conformità di un impianto alle nuove e più stringenti normative di sicurezza.

Si tratta della centrale di Sendai, sull’isola di Kyushu, che potrà essere riattivata già quest’autunno. L’ispezione che ha portato alla certificazione è stata lunga e complessa perché destinata a rappresentare il modello su cui condurre le ispezioni successive agli altri impianti. Le prossime certificazioni potrebbero dunque arrivare in tempi molto più stretti.

Il governo in carica, conservatore, è molto favorevole a un ritorno consistente al nucleare, che nel 2010 – prima dell’incidente – forniva il 25% dell’energia elettica prodotta nel Paese e il 13% dei consumi di energia primaria. Nel 2013,  l’elettricità prodotta era poco più dell’1% del totale e l’incidenza sui consumi totali inferiore all’1%.

La mancata produzione nucleare è stata rimpiazzata con generazione da fonti fossili importate: petrolio, carbone e soprattutto gas naturale, il cui consumo è aumentato rispettivamente del 4 e del 24% tra il 2010 e il 2013. L’effetto è chiaro guardando ai consumi di energia primaria:

Giappone: consumi di energia primariaNonostante l’opposizione di una parte della popolazione, il governo sembra determinato a proseguire con la propria linea di politica energetica. A pesare sono in primo luogo considerazioni di bilancia commerciale: il controvalore delle importazioni di GNL è passato da 40 miliardi di dollari nel 2010 a 75 miliardi nel 2012 e 72 miliardi nel 2013.

A queste considerazioni se ne aggiungono poi altre di sicurezza: il Giappone è arrivato nel 2013 a un livello di dipendenza dalle importazioni energetiche del 93%. Un valore molto alto in assoluto, ma che è ancora più preoccupante in un contesto dalle incerte prospettive di sicurezza come quello dell’Asia orientale. È dunque probabile che il governo andrà avanti con un parziale ritorno al nucleare, con buona pace dell’opposizione.

La sicurezza energetica europea, tra breve e lungo periodo

OIES - Europe’s energy security – caught between short-term needs and long-term goals Ancora un bel lavoro pubblicato dall’Oxford Energy Studies Institute dal titolo Europe’s energy security – caught between short-term needs and long-term goal, a firma di David Buchan.

Il lavoro analizza la questione dei rapporti energetici tra i Paesi dell’UE e la Russia, alla luce delle conseguenze della crisi ucraina. Alle prese con una dipendenza strutturale dalle importazioni e con la questione degli alti costi delle politiche energetiche immaginate per il 2030, l’UE non può che continuare a dipendere almeno in parte dalla Russia per i propri approvvigionamenti.

La questione chiave, come sottolinea bene Buchan, è che il problema europeo non è la dipendenzas in sé, ma la vulnerabilità, ossia il fatto che interruzioni di breve periodo possano causare danni. Questo problema riguarda soprattutto il gas, data la possibilità di importare da altri fornitori sia il carbone, sia il greggio e i suoi derivati. E riguarda sopratutto i Paesi dell’Europa orientale, dove la dipendenza dal gas russo è totale.

La risposta? Più che farsi prendere dalla fobia anti-russa, i decisori politici europei dovrebbero guardare di più alle soluzioni concrete, come l’aumento delle interconnessioni tra le reti europee e della capacità di stoccaggio. E magari come la costruzione di South Stream, che ridurrebbe le vulnerabilità legate all’instabilità in Ucraina. Che in fondo resta il vero problema.

La rete europea del gas

ENTSOG - The European Natural Gas Network (Capacities at cross-border points on the primary market) La European Network of Transmission System Operators for Gas (ENTSOG) ha pubblicato la versione aggiornata della sua cartina della rete europea di trasmissione del gas, The European Natural Gas Network 2014.

La cartina fornisce una mappatura di tutte le principali linee di trasmissione ad alta pressione ed è corredata di un utilissimo database con il dettaglio della capacità di trasmisione a tutti  i punti di confine.

 

L’Ucraina e le guerre del gas

Lettera43 - L'Ucraina e le guerre del gas«Mettiamola così: provate a casa vostra a non pagare per sei mesi la bolletta e vedete cosa succede. Certo, potete chiamarla guerra, appellarvi ai tribunali, protestare contro i prezzi alti, ma se vi staccano il gas è solo colpa vostra. E finché non fate il versamento con gli arretrati, la pasta la mangiate fredda. Non c’è bisogno di scomodare quindi la geopolitica per spiegare la questione tra Gazprom e Naftogaz: i debiti vanno saldati, punto e basta».

Stefano Grazioli scatenato su Lettera43. E decisamente condivisibile: qui il resto.

Le prospettive della domanda di gas in Europa

OIES - The Outlook for Natural Gas Demand in EuropeSegnalo un bel paper di Anouk Honoré dal titolo The Outlook for Natural Gas Demand in Europe, pubblicato dall’Oxford Institute for Energy Studies.

Il lavoro è un’accurata analisi dei consumi finali di gas in Europa, che mette in evidenza la centralità della generazione elettrica sia come fattore di aumento dei consumi tra la fine degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila, sia come fattore di rapida contrazione del mercato a partire dalla seconda metà del decennio scorso.

Il paper è molto approfondito e include una sezione dedicata all’analisi del passato, una dedicata alle sfide e allo opportunità nei diversi settori, una dedicata all’evoluzione futura fino al 2030 e infine una dedicata all’analisi (con grafici) delle prospettive di ciascuno dei 35 Paesi europei analizzati. Unico neo, l’assenza di valori relativi all’UE nel suo insieme o delle tabelle disaggregate per Paese.

Secondo l’autrice, il decennio in corso è destinato a essere dominato dagli effetti negativi della crisi, dei sussidi alle rinnovabili e del carbone a basso costo. Nel prossimo decennio ci sarà invece spazio per un recupero di domanda nel termoelettrico, soprattutto in Spagna e marginalmente Francia, Polonia e (forse) Germania.

In Italia, invece, data la bassa domanda attesa, la quota di rinnovabili presente e la ancora alta quota di generazione da gas non lasciano spazio secondo l’autrice a una crescita dei consumi per la generazione, ma solo a un parziale recupero dei volumi persi. Dura ma onesta verità, temo.

La UE spinge per liberalizzare le esportazioni di idrocarburi USA

Sole24Ore - L'Europa punta i piedi per liberare l'export di petrolio e gas UsaIl Sole24 Ore riporta oggi la notizia di un documento della Commissione europea trapelato nelle mani del Washington Post, in cui si vede la pressione che i negoziatori europei del nuovo accordo di libero scambio transatlantico stanno facendo sui loro omologhi americani, affinché si proceda all’eliminazione delle restrizioni alle esportazioni di idrocarburi fuori dai confini statunitensi.

Tali restrizioni furono introdotte negli anni ’70, quando gli embarghi posti in essere dagli arabi e la diminuzione della produzione domestica accrebbero la percezione dell’esistenza di una minaccia alla sicurezza energetica nazionale.

A seguito della shale revolution tali restrizioni non hanno tuttavia più molta ragione d’essere: gli USA ormai producono al loro interno o importano dal vicino e affidabile Canada la gran parte degli idrocarburi di cui abbisognano.

Secondo la Commissione europea, facilitare le esportazione di idrocarburi USA verso l’Europa può migliorare la sicurezza energetica europea.  Ci sono tuttavia ragioni di crede, e in questo blog l’abbiamo detto più volte, che questo miglioramento sia piuttosto trascurabile.

Semmai, il beneficio che l’Europa potrebbe ottenere sarebbe quello di vedere ridotto il vantaggio competitivo delle raffinerie e delle altre industrie americane che usano gli idrocarburi come materia prima, materia prima che in situazioni di eccesso di offerta viene inevitabilmente venduta a un prezzo ribassato (si ricordi che in questi anni il Brent è stato sensibilmente più caro del West Texast Intermediate).

Nel caso queste pressioni avessero un seguito positivo nell’accordo transatlantico, il comparto europeo, che vive una situazione di profonda crisi, potrebbe avere qualche piccola ragione di gioire.