Emissioni di CO2: l’Europa è marginale

Emissioni di CO2 delle principali economie mondiali (2011-2030)La riduzione delle emissioni di CO2 rappresenta da un decennio una delle priorità politiche della Commissione. L’enfasi è stata posta sulla definizione di obbiettivi vincolati alle emissioni europee: -20% rispetto al 1990 entro il 2020 e -40% entro il 2030.

La Commissione ha usato la questione del cambiamento climatico come strumento per acquisire legittimità e spazi d’azione, spingendo i Paesi europei all’avanguardi nella “lotta” (già il termine la dice lunga sull’approccio di marketing) al cambiamento climatico. Peccato che gli altri non seguano, o seguano a parecchia distanza.

Prima di continuare a imporre alle economie europee i costi di una continua riduzione unilaterale delle emissioni, gioverebbe dare un’occhiata ai dati in un’ottica globale. Anche senza mettere in discussione il nesso tra emissioni antropiche e cambiamento climatico.

Guardando ai dati IEA, emerge che l’Unione Europea ha emesso nel 2011 3.499 Mt di CO2, ossia l’11% del totale mondiale (31.161 Mt). Secondo le previsioni, al 2020 le emissioni europee scenderanno a 3.157 Mt, ossia il 9% del totale mondiale, per attestarsi nel 2030 a 2.702 Mt, ossia il 7% del totale mondiale.

Variazione delle emissioni di CO2 (2011-2030)Emissioni netta contrazione, quelle europee. Al contrario di quelle mondiali, che arriveranno a 34.595 Mt nel 2020 e a 36.493 Mt nel 2030. A guidare la crescita la Cina, le cui emissioni sono già oggi il doppio di quelle europee e il solo cui aumento tra il 2011 e il 2030 sarà di poco inferiore al totale delle emissioni.

Insomma, mentre noi tagliamo, dalle parti di Pechino spunterà dal nulla una nuova Europa, in termini di emissioni. E percorsi analoghi saranno seguiti dalle altre economie mondiali, USA a parte (ammesso che la nuova amministrazione non sia repubblicana…).

Insomma, quasi tutti continueranno ad emettere più o meno indisturbati. Perché imporre costi crescenti alle famiglie e alle imprese europee senza un impegno globale?

South Stream: pre-accordo per lo stoccaggio dei tubi

South Stream - South Stream Transport signed an option agreement for the storage and handling of pipe segments with the Port of Varna and the Port of BurgasIl consorzio South Stream ha annunciato in una nota l’individuazione di tre siti portuali di stoccaggio per i tubi da posare sul fondale. Si tratta del porto di Burgas e dei due porti (est e ovest) di Varna, tutti sulle coste bulgare.

I siti di stoccaggio potrebbero accogliere i 75.000 segmenti di tubo necessari a realizzare le quattro linee previste per il gasdotto. L’orizzonte temporale previsto è 4-6 anni, a decorrere da quest’anno.

Si tratta di un ulteriore passo avanti, dopo il recente annuncio della creazione di un tavolo di lavoro Russia-Ue per superare i problemi relativi al regime autorizzativo del gasdotto.

Analizzando il testo del comunicato, tuttavia, emerge come l’accordo sia semplicemente un option agreement, le aree di stoccaggio siano state solamente identificate e, in generale, «the ports may be used for marshalling yards and related logistics».

Insomma, potrebbe trattarsi di un passo avanti reale ma anche solamente di un altro tassello della strategia comunicativa di Gazprom volta a creare un’impressione diffusa di avanzamento dei lavori più veloce del reale. Tutte e due le ipotesi sono al momento plausibili.

Regno Unito: nuove licenze per il Mare del Nord

Produzione britannica di gas e petrolio (1970-2012)Il governo britannico ha lanciato un nuovo tender per le licenze di sfruttamento degli idrocarburi del Mare del Nord, aprendo nuove aree agli investitori. Due mesi fa il tender precedente ha portato alla concessione di 219 nuove licenze.

Il settore petrolifero è un contributore importante per il fisco britannico: i 36 progetti approvati nel 2013 hanno generato circa 6,5 miliardi di sterline (7,8 mld euro) di gettito e altri 5 miliardi di sterline (6 mld euro) di gettito stimato lungo la filiera. Il settore petrolifero britannico, inoltre, impiega 350.000 lavoratori, di cui quasi la metà in Scozia.

Il settore petrolifero britannico si è sviluppato intorno ai giacimenti del Mare del Nord, che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta ha conosciuto un vero e proprio boom petrolifero: da 2 Mt nel 1975 a 80 nel 1980, fino al record di 165 nel 1986.

L’industria ha conosciuto una seconda giovinezza negli anni Novanta con il gas naturale, passato da una produzione intorno ai 40 Gmc negli anni Ottanta a 76 Gmc nel 1995, fino al record di 116 Gmc nel 2000.

Il declino nel primo decennio del secolo è stato rapido: la produzione aggregata di gas e petrolio è infatti passata dal record di 227 Mtep del 1999 a 82 Mtep nel 2012. Per trovare un livello tanto basso, occorre tornare indietro fino al 1978. E i dati preliminari relativi al 2013 indicano un’ulteriore contrazione del 10%.

A differenza di altri governi europei che preferiscono aumentare la pressione fiscale per sussidiare le rinnovabili, il governo britannico sembra dunque deciso a sostenere la ripresa economica anche sfruttando le riserve presenti nel sottosuolo del Paese e puntando all’efficienza nei consumi.

Obiettivi europei clima-energia: un’analisi

Aleksandra Gawlikowska-Fyk -New Climate and Energy Package for 2030Come ampiamente riportato dalla stampa, la Commissione europea ha reso noti mercoledì i nuovi obiettivi europei in tema di emissioni di CO2 e di diffusione obbligatoria delle rinnovabili al 2030.

Quanto alle emissioni, l’obiettivo fissato è di una riduzione delle emissioni di CO2 del 40% rispetto ai livelli del 1990. L’obiettivo è obbligatorio e declinato su base nazionale: ciascun Paese ridurrà le proprie emissioni rispetto ai propri livelli del 1990. Incidentalmente, anno nel quale le fabbriche ad alte emissioni della Germania dell’Est erano ancora in piena attività.

Quanto alle rinnovabili, l’obiettivo fissato è di una diffusione delle rinnovabili al 27% del paniere energetico. In questo caso, l’obiettivo è declinato a livello europeo. In questo modo, se un grande Paese con obiettivi vincolanti stabiliti a livello nazionale si trovasse in eccesso di produzione da rinnovabili, potrebbe vendere la propria produzione “verde” agli altri Paesi (come si dice in tedesco?).

Segnalo un breve paper di Aleksandra Gawlikowska-Fyk dal titolo New Climate and Energy Package for 2030, che analizza le decisioni prese.

Rinnovabili e fonti fossili devono convivere responsabilmente

Guido BortoniCome riportato recentemente da Terna, la domanda elettrica italiana continua a calare, mentre la capacità di generazione cresce e ha ormai raggiunto valori superiori al doppio della domanda di picco. Per dirla con una metafora, la torta è sempre più piccola e sempre più numerosi sono quelli che vorrebbero spartirsela.

Fino ad ora le politiche pubbliche, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa, hanno fatto in modo che una fetta sempre maggiore fosse destinata alle fonti rinnovabili di elettricità. Questa fetta vale ormai il 30% dell’intera torta e ha imposto ai produttori termoelettrici una dieta forzata non da poco, tanto che vi è il concreto rischio che qualcuno di loro muoia presto d’inedia.

Per evitare il peggio e fare in modo che il sistema non si avviti in una spirale di costi crescenti e di dirigismo estremo, è ora che tutti facciano la loro parte e si assumano la responsabilità dei costi che apportano al sistema. Questa sembra la posizione di Guido Bortoni, presidente dell’AEEG, il quale ieri a Milano ha ricordato che rinnovabili e fonti fossili non sono né nemici né amici, ma conviventi che devono cercare di sopportarsi l’un l’altro.

Nel suo discorso tenuto in Bocconi, Bortoni lascia intendere che le preferenze dell’Autorità sono per un’imputazione degli oneri di sbilanciamento in capo ai produttori da rinnovabili e per un limite severo all’estensione dell’esenzione dal pagamento degli oneri di rete: chiunque causa uno squilibrio nel sistema o ricorre alla rete deve giustamente contribuire a pagarne i costi.

Infine, per fare in modo che il numero di coloro che cercano di ritagliarsi un pezzo della torta non fluttui in modo inefficiente nel tempo, Bortoni ha confermato che la strada del mercato della capacità va intrapresa con convinzione e si attendono con impazienza le ultime battute dal Ministero per lo Sviluppo Economico.

Insomma, ci sono tutte le premesse per riconoscere che le rinnovabili non sono più un bambino piccolo da tutelare e viziare oltremodo, ma un baldo giovane che va messo di fronte alle responsabilità della vita matura per il bene suo e di chi gli sta intorno.

Germania: il peso dei sussidi

Economist - Germany’s energy transition. Sunny, windy, costly and dirtyIl peso delle rinnovabili inizia a farsi sentire anche sull’economia tedesca, che rischia di essere penalizzata in modo decisivo proprio nel momento in cui la congiuntura internazionale sembra migliorare.

E il superministro dell’economia e dell’energia, Sigmar Gabriel, in settimana ha detto che in Germania “abbiamo raggiunto il limite di quanto possiamo chiedere alla nostra economia”, secondo quanto riportato dal FT.

Un segnale chiaro, in vista delle proposte della Commissione di alzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni e renderli vincolanti a livello europeo, attese per quest’oggi. Perché il governo tedesco ha già imboccato autonomamente la strada di obiettivi molto ambiziosi e vorrebbe impegni più stretti e vincolanti per tutti.

La transizione energertica tedesca (Energiewende) fissa obiettivi molto alti. Al 2050, le rinnovabili dovrebbero fornire l’80% della produzione elettrica e il 60% dei consumi energetici, con una riduzione delle emissioni di CO2 dell’80-95% rispetto al 1990.

I costi delle misure fin qui adottare sono però astronomici: 16 miliardi in più in bolletta per le famiglie tedesche, secondo le cifre riportare dall’Economist. 24 miliardi in totale, secondo le stime del FT. E col rischio che la Commissione europea imponga di ridurre le esenzioni per gli energivori, penalizzando così l’industria tedesca.

Un bel problema per il governo tedesco, che teme di veder compromessa la competitività delle proprie imprese. E per Gabriel, visto che c’è il rischio concreto che l’utilizzo delle centrali a carbone sia progressivamente ridotto. Un grosso problema, considerando la forte industria estrattiva tedesca e la vocazione degli occupati nel settore a votare per l’SPD, il partito di Gabriel.

Il problema più grosso per il governo tedesco e la spiegazione della sua intransigenza è però un altro. La legge tedesca è molto rigida e non permette in alcun modo un taglio retroattivo dei sussidi.

Questo significa che il peso dei sussidi è destinato a restare immutato per anni: anche smettendo di sussidiare impianti nuovi, ci sarebbero quelli vecchi da mantenere per venti anni dall’entrata in servizio. A quel punto, tanto vale usarli appieno e imporre agli altri Paesi europei un peso simile, affinché l’industria tedesca non sia troppo svantaggiata. In questo caso, il problema non è solo tedesco, ma anche del resto d’Europa.

Aggiornamento: segnalo anche l’interessante articolo di Matt McGrath per la BBC.