Slides relative alla lezione «La geopolitica dell’energia», tenuta presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (10 settembre 2013), nell’ambito del corso La Russia nello scenario internazionale.
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Slides relative alla lezione «La geopolitica dell’energia», tenuta presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (10 settembre 2013), nell’ambito del corso La Russia nello scenario internazionale.
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Da più parti si leggono fantasiose ipotesi relative al fatto che l’accanimento contro Assad e il rischio di guerra generale in Siria siano in realtà funzione di un oscuro piano per impedire la costruzione di un gasdotto che collegherebbe il giacimento iraniano di South Pars all’Unione Europea.
Su tutti, segnalo questa perla, che riesce a confondere il gas con il petrolio (o forse l’autore pensa di metterli nello stesso tubo?) e non argomenta l’inspiegabile posizione della Turchia, ma almeno ha il pregio di avere dei link interessanti in fondo.
L’argomento: i produttori del gas del Golfo (capitanati dal Qatar) stanno armando i ribelli siriani per destabilizzare il Paese. Lo scopo? Impedire che la Siria diventi il punto di arrivo (o di transito verso il Libano, secondo altre versioni) di un gasdotto proveniente dall’Iran attraverso l’Iraq.
Da dove cominciare? Restiamo sul piano economico: i costi per garantire la sicurezza di un gasdotto lungo 2.000 km in una regione instabile sarebbero astronomici. A questo si aggiunge il fatto che per ripagare l’investimento, i costi di trasporto sarebbero alti anche ipotizzando una tariffa bassa (2 dollari ogni 100 km ogni 1.000 mc, ossia metà del Nabucco West): totale 800 milioni di dollari all’anno, solo per far arrivare 20 miliardi di metri cubi alle coste della Siria o del Libano.
Alla cifra si dovrebbero poi aggiungere i costi di un terminale di liquefazione (10 miliardi di dollari) e i costi di trasporto via metaniera. Per farla breve: con questo progetto, se anche il gas iraniano arrivasse in Europa, ai prezzi di mercato non ripagherebbe nemmeno i costi di produzione e trasporto. Figurarsi finanziare una guerra per impedirne il transito.
Dati alla mano, è più probabile una vendetta templare.
Segnalo una breve e interessante analisi di Markus Jaeger (DB) su vincitori e perdenti tra i Paesi emergenti di una riduzione dei prezzi delle materie prime.
L’analisi parte dalla considerazione che il diffuso processo di industrializzazione ha negli ultimi anni spinto verso l’alto le quotazioni delle materie prime, energetiche e non, necessarie a sostenere consumi crescenti.
La tendenza è data per acquisita, ma nell’ipotesi di prezzi in discesa, chi sarebbe a beneficiarne? Jaeger indica Turchia e Corea del Sud tra i grandi vincitori, avvantaggiati soprattutto sul fronte del costo dell’energia.
Tra i perdenti ci sarebbero invece Indonesia, Brasile, Sudafrica, ma soprattutto Russia. Perché se l’energia pesa sulla crescita degli importatori, nell’ultimo decennio è stata anche il vero motore dell’ecnonomia russa.
Secondo DB, agli attuali livelli di prezzo del greggio, la Russia sarà in attivo di partite correnti anche nel 2013-2014. Senza la componente energetica, il passivo sarebbe pari al 15% del PIL. Assumento la domanda di importazione come stabile, con quotazioni intorno agli 80 dollari al barile, il passivo (energia inclusa) sarebbe il 3% del PIL.
Senza il gettito delle materie prime energetiche, il bilancio pubblico russo sarebbe oggi in passivo del 10% del PIL. Tuttavia, in caso di calo dei prezzi delle materie prime, la situazione russa non sarebbe drammatica: le metriche di finanza pubblica russa sono ottime. Grandi riserve di valuta (500 miliardi di dollari) e bassissimo indebitamento (12%) lasciano ampi margini di manovra.
La situazione sarebbe critica solo in caso di calo drastico e prolungato, tale dal imporre correzioni strutturali alla spesa pubblica russa. Ma in un contesto del genere, le difficoltà della Russia sarebbero forse il meno, perché probabilmente saremmo nel mezzo di una pesante recessione globale.
Prosegue senza sosta la penetrazione cinese in Asia Centrale. Questa volta si tratta di Kashagan, il giacimento gigante nelle acque kazake del Caspio. Dopo oltre un decennio di lavori e contrattempi, finalmente quest’anno sono state avviate le attività di produzione.
Il giacimento è sfruttato dalla North Caspian Operating Company, di cui fanno parte Eni, Shell, Total, ExxonMobil, KazMunayGas (16,81% ciascuna) e Inpex (7,56%). A queste compagnie si aggiungeva ConocoPhillips (8,39%), che però ha scelto di monetizzare la propria partecipazione.
All’acquisto era interessata la compagnia indiana ONGC Videsh per 5 miliardi di dollari, ma la compagnia di stato kazaka Kazmunaygas ha esercitato il proprio diritto di prelazione. Un duro colpo per gli indiani, sempre in cerca di nuove riserve.
Ma non è finita qui. Perché Kazmunaygas ha subito dopo annunciato di voler cedere la quota (facendo margine) alla compagnia di stato cinese CNPC. La scelta rafforza il legame tra Astana e Pechino, dopo i numerosi accordi, tra cui quello che ha portato alla realizzazione della Central Asia China Pipeline, che porta il gas turkmeno verso Oriente.
Che un quantitativo crescente di idrocarburi stiano prendendo la via dell’Oriente preoccupa molti, tra cui gli azerbaigiani, che dovrebbero in ogni caso veder transitare dai propri terminali (e poi attraverso la BTC) almeno parte del petrolio di Kashagan (Kazakh Caspian Transportation System). Eni e Shell seguono il vento e stanno negoziando per vendere la propria parte di produzione alle raffinerie cinesi.
Di certo l’avanzata cinese allontana sempre di più l’ipotesi che il gas centrasiatico possa prendere la via dell’Occidente. Il gas azerbaigiano sarà probabilmente l’unico del Caspio a raggiungere in quantità significative i mercati europei. Ma più che di geopolitica, si tratta di economia.
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Aggiornamento: qualcuno mi ha fatto notare che forse ho guardato troppo alle cartine e troppo poco alle figure. Perché più che di un risiko fatto di tubi si tratta di aritmetica dei consumi e degli investimenti: il petrolio kazako prende la via della Cina perché laggiù c’è la domanda presente e futura per quel greggio, a prescindere dalla partecipazione cinese in NCOC.
C’è poi da considerare il fattore della capacità di raffinazione: per portare il petrolio ai clienti finali (e paganti), occorre raffinarlo dove conviene di più, per tecnologia e vicinanza ai mercati. E anche in questo caso, i cinesi si stanno attrezzando da tempo.
Aggiornamento: sul tema della raffinazione, segnalo il numero 22 – giugno 2013 di Oil Magazine.
Il petrolio russo non solo rappresenta una parte importante degli equilibri energetici mondiali, ma è anche uno dei più delicati elementi dell’equilibrio politico russo nell’epoca post-sovietica.
Il massiccio libro di Gustafson è una guida perfetta per capire gli intrecci tra l’eredità sovietica, la rapida evoluzione del sistema politico, il ruolo delle compagnie straniere. Su questo sfondo, l’autore ricostruisce puntualmente le mosse degli attori che hanno attraversato il declino e la rinascita dell’industria del gas e petrolio russa, da Putin a Sechin, Khodorkovski, Alekperov, Bogdanov, Miller, Bogdanchikov, solo per citarne alcuni.
Una lettura davvero piacevole, perché all’alto contenuto informativo abbina una scrittura godibile e un dosato ricorso ad aneddoti interessanti. Frutto di anni di ricerca e di presenza sul campo, il libro è una lettura obbligata per chiunque si interessi di Russia post-sovietica o di energia, ma soprattutto per chiunque voglia capire qualcosa di più del futuro della Russia e delle sfide che dovrà affrontare.
Thane Gustafson
Wheel of Fortune: The Battle for Oil and Power in Russia
The Belknap Press, 2012, 662 pp.
ISBN/EAN: 978-0-674-06647-2 (cartaceo)
Scheda dell’editore
Scheda su Amazon.it
Servizio Bibliotecario Nazionale
Segnalo un nuovo paper di Leonardo Maugeri The Shale Oil Boom: A U.S. Phenomenon, dedicato tra a ricostruire il panorama del non convenzionale statunitense e a esplorare i fattori che ne rendono difficilmente replicabile il modello in altri Paesi.
Tra i più importanti, oltre alla dotazione geologica, vi sono la disponibilità di attrezzature, la scarsità di popolazione, la miriade di imprese comptitive e proponse al rischio e i diritti di proprietà delle risorse sotterranee (che negli Stati Uniti sono del proprietario del suolo).
Il testo contiene anche qualche interessante spunto di riflessione in ambito geopolitico.