Quale futuro per l’energia mondiale?

oeSegnalo una mia intervista per Orizzontenergia, dedicata ad alcuni grandi temi di attualità: boom asiatico, rivoluzione americana, fossili vs rinnovabili, competitività vs clima e lotta ai cambiamenti climatici.

Le rinnovabili hanno futuro anche senza sussidi? Sono davvero sostenibili?

Assolutamente sì. Oltre all’idroelettrico, finalmente anche le rinnovabili discontinue si stanno avvicinando sempre di più alla grid parity, almeno in alcuni mercati occidentali. Ci vorrà tempo, ma la loro quota nel paniere energetico è destinata a crescere nei prossimi decenni, anche senza sussidi. Un elemento chiave sarà sicuramente quello dell’accumulo elettrico, per il quale si vedono segnali interessanti. In ultima analisi, tutto dipende dal ritmo dell’innovazione tecnologica.

In un’ottica di lungo periodo, a ben vedere i sussidi hanno fatto più male che bene. Certo, hanno arricchito molti, ma hanno distorto gli incentivi per gli operatori a cercare maggiore efficienza o prestazioni migliori. Se si sta su un mercato truccato, le pressioni sistemiche a dare il meglio sono inevitabilmente ridotte.

Investire in ricerca sarebbe stato sicuramente una scelta più saggia, anche per le ricadute in termini industriali. Ma ormai l’errore è stato fatto, l’importante è non ripeterlo in futuro. Se si vuole premiare le fonti a emissioni zero e ridurre l’uso delle fonti fossili, bisogna dare un prezzo alle esternalità negative generata da queste ultime, in termini di inquinamento locale e di effetto climalterante.

Il resto dell’intervista è accessibile qui.

Può reggere il modello di business dello shale oil?

Sohn Investment Conference Presentation, May 4, 2015David Einhorn, noto per aver messo in dubbio la stabilità finanziaria di Lehman Brothers nel 2007, ha fatto qualche giorno fa un’interessante presentazione nella quale attacca i fondamenti delle principali società che sfruttano di shale oil statunitense (e non quello che si occupano principalmente di shale gas, che invece definisce competitive).

Se avesse ragione, si tratterebbe di un fatto epocale, giacché l’aumento della produzione statunitense è valso da solo alcuni milioni di barili di produzione giornaliera, contribuendo in modo determinante all’eccesso di offerta che ha fatto crollare le quotazioni del greggio l’anno scorso. Se i fondamenti economici della produzione di shale oil fossero davvero meno solidi di quel che comunemente creduto, ci sarebbero forti ripercussioni sia sui mercati finanziari (chi ha prestato i soldi alle società) sia quelli petroliferi (dove l’eccesso di offerta potrebbe venir meno).

Come mette in evidenza FT, Einhorn sottolinea soprattutto tre aspetti. Il primo riguarda il modo in cui le società riportano i ricavi, in particolare non tenendo adeguatamente conto del fatto che le spese in conto capitale non creano un asset, ma anzi lo riducono (estraendo l’olio dalle concessioni).

In secondo luogo, Einhorn si focalizza sui flussi di cassa come indicatore della salute delle imprese. Dal 2006, la differenza cumulata tra quanto speso dai principali produttori di shale oil aper acquisire diritti di trivellazione e produrre è stata inferiore a quanto speso di circa 80 miliardi di dollari. In pratica, i produttori di shale oil hanno fin qui bruciato liquidità, restando a galla solo grazie a ulteriori afflussi di capitali.

In terzo luogo, Einhorn sostiene che gli investitori convinti che il prezzo del greggio sia destinato a salire farebbero meglio a investire direttamente sui prodotti finanziari collegati al petrolio piuttosto che sulle società di produzione da shale oil, che resterebbero non competitive.

Come nota FT, la situazione merita attenzione, ma forse non è grave come Einhorn sostiene. Quanto ai flussi di cassa, i diritti acquisiti e l’expertise accumulata consentono ai produttori di continuare a produrre anche in futuro e a costi decrescenti.

Proprio nei costi si trova in fondo la risposta ai dubbi (legittimi) di Einhorn sulla sostenibilità dell’industria statunitense dello shale oil statunitense. In risposta al crollo dei prezzi del greggio, gli operatori hanno tagliato drammaticamente i costi e aumentato l’efficienza delle proprie operazioni. Chi riuscirà a farlo meglio resterà sul mercato, gli altri saranno travolti progressivamente, in base a quanto a lungo le quotazioni del greggio resteranno sotto i costi di produzione.

Ci saranno vittime, insomma, ma molti produttori si sono dimostrati parsimoniosi, innovativi e resilienti: probabilmente lo shale oil statunitense è destinato a restare un elemento dei mercati petroliferi mondiali anche in futuro.

La rivoluzione shale e il crollo del greggio

IWE - The Shale Revolution and the oil slumpSono disponibili sul sito dell’ISPI Energy Watch le slides relative all’intervento “The Shale Revolution and the oil splump“, tenuto ieri da Massimo Nicolazzi a Padova.

L’intevento ha aperto i lavori del convegno “Il mercato degli idrocarburi: scenari e politiche energetiche”, organizzato Centro Levi Cases dell’Università di Padova.

 

L’impatto locale della shale revolution

Corriere - Quel maledetto petrolio di PalermoIn questi giorni di discesa delle quotazioni del greggio ci si chiede se la shale revolution americana sia economicamente sostenibile oppure no. Si tratta di un tema importante per capire gli sviluppi che dobbiamo attenderci sui mercati energetici internazionali nei prossimi 12-18 mesi.

Nel frattempo però non si parla molto dell’impatto che il rapido sviluppo delle attività estrattive nei giacimenti shale ha avuto negli ultimi anni sulle comunità locali. Nel bene come nel male.

Per chi fosse interessato consiglio il reportage apparso oggi sul Corriere della Sera.

Nuove opportunità di lavoro e sviluppo, improvvise ricchezze, degrado ambientale, crescenti disparità e aumento della violenza sono tutte sfaccettature di un fenomeno che in 5-6 anni ha trasformato il North Dakota da povero territorio agricolo in uno dei maggiori produttori al mondo di idrocarburi.

NB: così come il piccolo villagio di Palermo ha conosciuto un boom eccezionale negli scorsi 5 anni, altrettanto velocemente potrebbe subire un netto ridimensionamento qualora il prezzo del petrolio non torni a salire. Stanti le prospettive più condivise, è lecito pensare che nuove città fantasma potrebbero apparire presto nello sconfinato Midwest americano.

Risorse non convenzionali: la questione dell’acqua

WRI - Global Shale Gas Development: Water Availability & Business RisksProdurre idrocarburi non convenzionali richiede enormi quantità d’acqua. Buona parte delle riserve di non convenzionale sono situate in aree dove l’acqua in realtà scarseggia. Di conseguenza, buona parte delle riserve mondiali non convenzionali sarà molto difficile da sviluppare su vasta scala in tempi rapidi.

Questo, in estrema sintesi, il contenuto di uno studio molto interessante pubblicato dal World Resources Institute con il titolo Global Shale Gas Development: Water Availability & Business Risks, ripreso anche da SQ.

Ben strutturato e approfondito, lo studio analizza l’utilizzo dell’acqua nelle tecniche di sfruttamento delle riserve di idrocaburi in giacimenti non convenzionali. Inoltre, incrocia i dati sulla presenza di riserve non convenzionali coi dati relativi alla disponibilità d’acqua. In appendice, è anche presente un’analisi regione per regione dei Paesi con le riserve più consistenti di gas da argille.

Cattive notizie? Un po’ per tutti, ma per due Paesi in particolare: Algeria e Cina. L’Algeria è più o meno tutta arida e con una popolazione in crescita, con conseguenze facilmente intuibili. Nel caso della Cina, invece, le riserve o sono collocate in aree aride (ovest) o sono in aree densamente popolate con andamento idrico discontinuo.

Sia per l’Algeria sia per la Cina, insomma, le stime di produzione da non convenzionale potrebbero essere ottimistiche, almeno fintanto che non saranno sviluppate tecniche a minor consumo idrico. In altre parole, con certezza in nessuno dei due Paesi avremo un boom del non convenzionale, almeno nel breve-medio periodo.