Sono disponibili qui le slides relative alla lezione «Geopolitics of energy», tenuta venerdì 24 aprile presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, nell’ambito del master in Human Rights and Conflict Management.
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Sono disponibili qui le slides relative alla lezione «Geopolitics of energy», tenuta venerdì 24 aprile presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, nell’ambito del master in Human Rights and Conflict Management.
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A tre anni dall’incidente della centrale di Fukushima, il governo giapponese sembra intenzionato a riavviare le centrali nucleari del Paese. L’Autorità per la regolazione del nucleare ha infatti certificato per la prima volta la conformità di un impianto alle nuove e più stringenti normative di sicurezza.
Si tratta della centrale di Sendai, sull’isola di Kyushu, che potrà essere riattivata già quest’autunno. L’ispezione che ha portato alla certificazione è stata lunga e complessa perché destinata a rappresentare il modello su cui condurre le ispezioni successive agli altri impianti. Le prossime certificazioni potrebbero dunque arrivare in tempi molto più stretti.
Il governo in carica, conservatore, è molto favorevole a un ritorno consistente al nucleare, che nel 2010 – prima dell’incidente – forniva il 25% dell’energia elettica prodotta nel Paese e il 13% dei consumi di energia primaria. Nel 2013, l’elettricità prodotta era poco più dell’1% del totale e l’incidenza sui consumi totali inferiore all’1%.
La mancata produzione nucleare è stata rimpiazzata con generazione da fonti fossili importate: petrolio, carbone e soprattutto gas naturale, il cui consumo è aumentato rispettivamente del 4 e del 24% tra il 2010 e il 2013. L’effetto è chiaro guardando ai consumi di energia primaria:
Nonostante l’opposizione di una parte della popolazione, il governo sembra determinato a proseguire con la propria linea di politica energetica. A pesare sono in primo luogo considerazioni di bilancia commerciale: il controvalore delle importazioni di GNL è passato da 40 miliardi di dollari nel 2010 a 75 miliardi nel 2012 e 72 miliardi nel 2013.
A queste considerazioni se ne aggiungono poi altre di sicurezza: il Giappone è arrivato nel 2013 a un livello di dipendenza dalle importazioni energetiche del 93%. Un valore molto alto in assoluto, ma che è ancora più preoccupante in un contesto dalle incerte prospettive di sicurezza come quello dell’Asia orientale. È dunque probabile che il governo andrà avanti con un parziale ritorno al nucleare, con buona pace dell’opposizione.
Nell’immaginario collettivo il nucleare è la fonte di energia più pericolosa e inquinante che ci sia. Che sia la più inquinante possiamo discuterne, ma che sia la più pericolosa, almeno in termini di vite umane, è ora di smettere di crederlo.
Ieri l’ennesima miniera di carbone è crollata uccidendo circa 200 minatori in Turchia. L’anno scorso altre decine di minatori erano morti nella solo Turchia, ma ogni anno il computo è di alcune migliaia se contiamo le miniere, a volte rudimentali, di tutto il mondo e le centinaia di centrali a carbone, dove qualche incidente ogni tanto capita.
Quanti morti ha fatto invece l’incidente di Fukushima?
Certo, quello di Chernobyl fece alcune decine di vittime nei primi giorni dopo l’esplosione, e ad essi purtroppo seguirono alcune migliaia di casi di tumori spesso mortali negli anni successivi, ma non mi sentirei di dire che la somma di quei morti sia superiore ai 6-7.000 minatori rimasti uccisi negli ultimi 4 anni nella sola Cina.
Dato che dire di no al nucleare significa al momento attuale anche dire sì al carbone, invito tutti a riflettere su quale sia la scelta migliore.
In Italia il nucleare è – purtroppo – ormai solo un ricordo del passato, mentre il dibattito a Bruxelles sembra essere fossilizzato a quante rinnovabili sussidiare e a come limitare il ruolo di Gazprom. Intanto però il mondo va da un’altra parte.
A ricordarcelo è l’accordo quasi raggiunto nel Regno Unito per la realizzazione di un nuovo reattore nucleare a Hinkley Point, in Somerset. A costruire l’impianto saranno la francese Edf (che già opera la centrale) e un partner non ancora rivelato, che a quanto pare dovrebbe essere la China General Nuclear Power Group, uno dei due gruppi cinesi attivi nella costruzione di centrali (l’altro è China National Nuclear Corp).
Se finalizzato, l’accordo prevederà l’accesso dei cinesi alla tecnologia dell’European pressurised reactor (il modello da esportazione dell’industria nucleare francese), l’acquisizione delle procedure di sicurezza e delle capacità di gestione del processo di costruzione (esclusa per il momento l’ipotesi che i cinesi operino la centrale).
L’industria cinese è in questo momento molto attiva, con 29 reattori in costruzione solo in Cina (sì, 29: tre volte tanto le centrali ancora attive che i tedeschi vorrebbero chiudere). Questa ulteriore partnership in Europa darebbe tuttavia un contributo essenziale per competere sui mercati globali, soprattutto in Medio Oriente e in Asia (determinanti sia la tecnologia sia la padronanza delle norme di sicurezza europee).
Un patto col diavolo per Edf, ma necessario per trovare i fondi necessari a far partire i lavori (la stima iniziale è di 16,5 miliardi di euro, ma si sa come vanno queste opere). La liquidità non è tuttavia un problema per il governo cinese, che mira tra l’altro in questo modo a diversificare la valuta dei propri investimenti.
Dal punto di vista britannico, il nodo più critico è quello del costo dell’energia: il nucleare è conveniente nel lungo periodo, ma gli investitori vogliono un ritorno subito (soprattutto i francesi). I termini dell’accordo sono segreti, ma secondo indiscrezioni il prezzo previsto sarebbe parecchio sopra i prezzi di mercato attuali (90-92 sterline a MWh, contro un prezzo medio odierno tra 50 e 60 e uno atteso a 15 anni di circa 80).
Un caro prezzo, ma con diversi vantaggi. Oltre alla diversificazione e agli investimenti diretti, il Regno Unito avrebbe infatti portato a casa un altro risultato di peso: ospitare a Londra il primo mercato autorizzato a trattare il reminby, la valuta cinese che prima o poi dovrà iniziare la transizione in uscita dal cambio fisso. A beneficiare saranno anche i rapporti tra Londra e Parigi, magari con un occhio alla rinegoziazione delle condizioni di appartenenza all’Ue per i Paesi non-euro.
Per i britannici il nucleare rappresenta anche un modo di ridurre le emissioni di anidride carbonica, in vista dell’obiettivo nazionale di decarbonizzazione dell’economia al 2050. Importante per gli equilibri politici interni britannici, ma ininfluente a livello globale: nei prossimi 20 anni, i cinesi installeranno 280 GW solo di nuove centrali a carbone (a conferma che la riduzione delle emissioni è un business molto europeo). Il nucleare è solo un tassello.
L’Italia ha ribadito due anni fa la sua scelta contro l’energia nucleare. Una scelta difficile e costosa, anche in termini di minore sicurezza energetica, ma che va accettata dato che il popolo italiano si è espresso per ben due volte in modo piuttosto netto sull’argomento.
Tuttavia, per chi volesse avere qualche informazione sulle prospettive dell’energia nucleare in Europa e volesse saperne di più sulle delicate attività di decommissioning, consiglio questa conferenza che si terrà lunedì mattina 25 febbraio allo IUSS di Pavia.
Parlerà il dott. Celso Osimani, membro del Centro Comune di Ricerca di Ispra.
La sicurezza energetica viene intesa normalmente come la disponibilità di energia a prezzi abbordabili. Tuttavia, con sicurezza si traduce in italiano anche il concetto inglese di safety.
Negli ultimi anni eventi disastrosi come l’incendio della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico o l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima in Giappone hanno sottolineato l’importanza di questo aspetto e la gravità, in termini umani e ambientali, degli incidenti che possono accadere nell’industria energetica.
Proprio dell’incidente nucleare accaduto in Giappone nel marzo del 2011 si parlerà lunedì prossimo ad una conferenza presso lo IUSS di Pavia. Ad intervenire sarà il prof. Pier Roberto Danesi, ex-direttore dei Laboratori sulle Applicazioni Nucleari della IAEA, il quale proverà ad analizzare scientificamente le conseguenze radioattive del disastro, senza tuttavia cadere troppo nel tecnicismo.