Slides relative alla lezione «Russian Gas for Western Europe. Energy Security in a Changing International System», tenuta presso l’Università degli Studi di Bologna – Sede di Forlì (7 Maggio 2013).
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Slides relative alla lezione «Russian Gas for Western Europe. Energy Security in a Changing International System», tenuta presso l’Università degli Studi di Bologna – Sede di Forlì (7 Maggio 2013).
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Il monopolista ucraino del gas, Naftogaz, è sempre più nei guai. Dopo il lodo di febbraio della Corte arbitrale di Stoccolam, vinto dal trader italiano Iugas, Naftogaz dovrà mettere a disposizione 13,1 miliardi di metri cubi di gas ai prezzi del 2003 (110 dollari al metro cubo).
Naftogaz non dispone di quel gas – al momento dell’accordo, l’azienda ucraina si riforniva di gas turkmeno a 70 dollari al metro cubo (chi si ricorda di Itera?) – e dovrà comprarlo da Gazprom, che attualmente vende il gas all’Ucraina a oltre 400 dollari a metro cubo. Totale: un passivo di 4 miliardi di dollari per Naftogaz, che l’azienda ucraina difficilmente potrà permettersi. E che peraltro non ha nessuna intenzione di pagare.
E non finisce qui. Perché nel frattempo Gazprom ha avanzato una richiesta di indennizzo per 7 miliardi di dollari per mancati ritiri da parte di Naftogaz, nonostante gli impegni contrattuali. Se anche Gazprom si vedrà dare ragione dai giudici, Naftogaz si troverà con nuovi debiti che non potrà onorare senza cedere all’estero i propri assets.
Naftogaz non intende rispettare l’arbitrato finché un tribunale ucraino non lo ratificherà, contando sulla natura “politica” di un’eventuale sentenza.
Mentre alcuni commentatori indicano un’ipotetica manovra a tenaglia ispirata dai russi, il dato che appare più evidente è l’assenza in Ucraina di un’autorità pubblica in grado di far rispettare gli accordi in modo terzo.
Ridurre il potere di ricatto sulle forniture energetiche dirette in UE di un Paese con queste caratteriste non può che essere una priorità di sicurezza energetica per i Paesi europei. Allo stesso tempo, appaiono ancora una volta evidenti gli enormi limiti che l’UE incontra nel proiettare la propria azione perfino su Paesi tanto vicini e tanto importanti come l’Ucraina.
Su Repubblica di oggi si apprende una nuova evoluzione delle incessanti lotte per il potere – economico e politico – in Russia.
La tesi sarebbe che l’astro nascente di Igor Sechin, a capo di Rosneft, punterebbe a ridurre il peso economico e politico di Gazprom, guidata da Aleksej Miller e vicina a Dmitrj Medvedev, attraverso una divisione delle attività di quest’ultima. L’obiettivo sarebbe quello di creare un unico gigante dell’esportazione energetica russa, con il beneplacito di Vldimir Putin.
L’appoggio presidenziale all’operazione sarebbe naturalmente indispensabile, ma è tutt’altro che scontato. Se infatti Sechin – vecchia conoscenza di Putin – ha potuto contare l’anno scorso sull’appoggio del Cremlino nell’acquisizione del controllo di TNK-BP, riducendo il ruolo straniero e privato nel settore energetico russo, tutt’altro che scontato è invece l’appoggio presidenziale per un’operazione che favorirebbe un significativo aumento della concentrazione del potere in capo a Rosneft, con possibili conseguenze negative per la stabilità politica di tutto il sistema.
Gazprom potrebbe essere privata del monopolio sull’esportazione di gas naturale russo. La notizia ha avuto una certa eco nei giorni scorsi e sarebbe un sintomo del cambiamento dei rapporti di forza e degli allineamenti all’interno dei vertici del potere russo, anche se con qualche distinguo.
I fatti: Gazprom gode di una posizione egemonica fin dal momento della sua costituzione, tradottasi in un monopolio di fatto a partire da inizio anni Duemila e in un monopolio legale dal 2006.
Ora però le cose starebbero cambiando: da un lato, l’ascesa di Rosneft – altro grande colosso di Stato – crea pressioni per un’apertura alla concorrenza tutta interna alle aziende di Stato. Dall’altro lato, la crescente necessità di ricorrere a capitali e tecnologie stranieri per sfruttare i nuovi giacimenti crea anche una pressione esterna da parte dei partners internazionali, che preferirebbero evitare l’intermediazione coatta di Gazprom per l’accesso ai mercati internazionali.
La possibile evoluzione non va tuttavia sopravvalutata: il superamento del monopolio riguarderebbe infatti in ogni caso solo il GNL, ossia al massimo alcune decine di Gmc, in Oriente (Sakhalin, già operativo) e nell’estremo Nord (Yamal, ancora in fase di studio). Le esportazioni via tubo, nell’ordine dei 200 Gmc, resteranno invece saldamente sotto il controllo di Gazprom.
Infine, occorre considerare che il superamento del monopolio di Gazprom, anche se dovesse in futuro estendersi ai gasdotti, non implicherà necessariamente un allentamento del controllo diretto del governo russo sulle attività del gas, ma un semplice cambiamento delle modalità di organizzazione del settore. Non molto diversamente da quanto avvenuto diverse volte in epoca sovietica.
Segnalo una pregievole iniziativa che si terrà tra il 10 e il 15 marzo a Eger, non lontano da Budapest, organizzata dal Rajk Laszlo College della Corvinus Universtiy. L’evento, chiamato un pò enfaticamente Central European Conference 2013, raccoglie brevi cicli di lezioni rivolti a studenti universitari e giovani ricercatori che vogliano approfondire e dibattere alcuni temi dell’integrazione e delle politiche europee.
Uno dei percorsi più interessanti tra quelli proposti è sicuramente quello sui mercati dell’energia nell’Europa centro-orientale, mercati che spesso devono subire le decisioni e gli sviluppi di quanto accade nei Paesi ben più grandi che si trovano tanto a Est (Russia), quanto a Ovest (Germania e Italia).
Ad intervenire non saranno solo accademici, ma soprattutto professionisti del settore, provenienti in particolare dall’azienda ungherese MOL e dalla tedesca E.on.
Per gli interessati l’iscrizione gratuita va fatta prima del 15 febbraio.
Sergei Komlev, dirigente di Gazprom Export specializzato in prezzi e contratti, è da alcuni mesi impegnato in una vera e propria “offensiva teorica” votata a difendere lo status quo dei contratti di lungo periodo indicizzati al petrolio con clausola take-or-pay. Segnalo, per chi volesse approfondire, il paper Pricing the “Invisible” Commodity.
Come riportato oggi dalla Staffetta, in Italia l’ultimo numero di Energia ospita un articolo di Komlev. Sintetizzando molto, l’argomentazione centrale è che gli attuali prezzi spot agli hub europei sono frutto di una dinamica marginale, ossia basata sui volumi residuali rispetto alle forniture take-or-pay e che quindi non è in realtà possibile sostenere che i prezzi agli hub sono determinati da dinamiche di domanda e offerta autonome.
La conseguenza è che un meccanismo basato sempre più su prezzi agli hubs che si formano in modo ibrido sia insostenibile, tanto da portare al progressivo smantellamento dei contratti di lungo periodo.
Komlev vede nel fatto che gli hubs non trattino tutta la domanda e tutta l’offerta dei mercati europei una debolezza insanabile, che li rende di fatto ancora strettamente legati ai prezzi dei contratti di lungo periodo (assumendo – senza dimostrare – che questo sarebbe un male per i consumatori europei).
Komlev fa bene il suo lavoro, ma non convince. Il punto è che cercando di argomentare sulla dinamica di mercato, omette di affrontare il punto chiave: l’indicizzazione al petrolio non ha più ragion d’essere e distorce irrimediabilmente i fondamentali del mercato. Il fatto che l’inerzia contrattuale – nonostante i tanti arbitrati – attribuisca ancora un ruolo a questa consuetudine commerciale non è una buona ragione per mantenerla, se non per chi vende.
Qui subentra il secondo punto: il mercato è lunghissimo e la Russia si trova con un potenziale di esportazione completamente orientato verso il mercato europeo, dove la domanda langue e continuerà a languire. A correre rischi sono soprattutto gli esportatori, che si trovano a competere per vedere e che dall’indicizzazione lucrano margini che la domanda reale non giustificherebbe.
Per chiudere, un’ultima nota: superare le attuali formule di indicizzazione non significherebbe in alcun modo che i contratti di lungo periodo debbano necessariamente essere abbandonati, ma solo che sarebbe il mercato a prezzare questa soluzione, in base alla domanda dei clienti. Magari evitando di imporre ai consumatori finali strani meccanismi di assicurazione dalla dubbia utilità.