Slides relative alla lezione «Europe’s dependency on Russian gas, or Russia’s dependency on European money? Trade relations and security issues», presso l’Università degli Studi di Bologna – Sede di Forlì (8 Maggio 2012).
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Slides relative alla lezione «Europe’s dependency on Russian gas, or Russia’s dependency on European money? Trade relations and security issues», presso l’Università degli Studi di Bologna – Sede di Forlì (8 Maggio 2012).
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Nelle dichiarazioni di Gazprom, il progetto South Stream avanza a grandi passi. Il 13 aprile scorso si è tenuta a Mosca la prima riunione del consiglio di amministrazione del consorzio, presenti Paolo Scaroni (Eni), Henri Proglio (EDF), Harald Schwager (BASF), Alexey Miller e Alexander Medvedev (Gazprom), oltre al nuovo presidente Henning Voscherau, un altro politico tedesco (Gerhard Schröder, passato a Nord Stream) dimostratosi molto felice di passare alle dipendenze dirette dell’impresa di Stato russa. La vicenda è ripresa da Vitus Bering, che la inquadra nel contesto della vicenda South Stream.
Ho già affrontato il tema dell’assenza di domanda sufficiente a dare un senso economico alla realizzazione a breve di South Stream e il peggioramento della situazione in Europa ha se possibile rafforzato di dubbi sul fatto che per tutto quel gas (60 Gmc da South Stream, più 27,5 da Nord Stream II) ci sia mercato in Europa.
Per quanto riguarda invece la competizione con gli altri progetti sul corridoio Sud, quello che arrivano in UE attraverso i Balcani, i due progetti effettivamente in lizza – e sarebbe giusto che anche il Corrado Passera ne prendesse atto – sono TAP e SEEP, riforniti da Shah Deniz II (Azerbaigian), in continuo progresso. Più che rientrare in una strategia delle istituzioni europee, invero parecchio a corto di legittimità e di cartucce, questi progetti sono un tentativo dei competitors delle imprese coinvolte in South Stream di aumentare la competitività dei mercati finali, erodendo quote di mercato agli incumbents (leggi ex-monopolisti).
South Stream appare così soprattutto come un’operazione di chi, come Eni, cerca di mantenere il più possibile invariati gli equilibrî sui mercati finali. Nel caso italiano, infatti, l’arrivo di TAP consentirebbe ad imprese diverse da Eni di rifornire via tubo il mercato italiano escludendo completamente dal midstream il campione nazionale, avendo la possibilità di competere sul prezzo, a tutto vantaggio dei consumatori finali.
Sul fronte russo, i 10 Gmc di TAP – o SEEP, se l’Italia uscirà sconfitta – non sono tali da impensierire veramente Gazprom, che in UE ne esporta quasi 120 Gmc già oggi, e al massimo possono rallentare South Stream, quando emergeranno prospettive economiche sufficienti a giustificare l’investimento. Per i russi, il progresso di South Stream è dunque sostanzialmente un posizionamento cartaceo, in attesa di capire se la ripresa dei consumi ci sarà e quando. Per di più, la rete infrastrutturale russa si è sviluppata nel corso dei decenni e un’accelerazione proprio ora non sembra plausibile.
Un’ultima considerazione sulla competizione cinese: in realtà, i giacimenti della Siberia orientale che servirebbero a servire il mercato cinese sono in gran parte diversi da quelli, più occidentali, che servirebbero a sostenere i nuovi flussi verso l’Europa. Esiste invece una possibile sovrapposizione soprattutto su un’eventuale riesportazione di gas centroasiatico, ma non tale da precludere alcun progetto, allo stato attuale.
La competizione euro-cinese per il gas russo è invece in gran parte sulla priorità dell’allocazione degli investimenti. Sebbene una logica di differenziazione suggerirebbe di guardare a Est, tuttavia per Gazprom i clienti europei restano al momento gli unici in grado di garantire alti prezzi e il rispetto del diritto e dei contratti, mentre i cinesi hanno già tentato di ottenere prezzi molto inferiori a quelli europei e non offrono grandi garanzie di affidabilità in caso di contenzioso. Lo sviluppo orientale di Gazprom senza dubbio ci sarà (soprattutto su altri clienti asiatici), ma in ultima analisi le dinamiche del rapporto con l’Europa sono destinate a rimanere endogene, almeno nel corso del decennio.
Come riportato da Caravella.eu, Putin ha annunciato che gli operatori russi investiranno nello shale gas, per mantenere il passo con i mercati globali.
Al netto delle questioni di propaganda (dal BP Statistical Review 2012, gli statunitensi hanno sorpassato i russi come primo produttore), le dichiarazioni di Putin difficilmente segneranno un cambio di passo nella strategia russa, almeno nel breve periodo.
Forti delle più grandi riserve al mondo (48.000 Gmc), gli operatori russi non hanno mai dovuto affrontare davvero la sfida tecnologica del non convenzionale. Secondo la IEA, le riserve russe di shale gas dovrebbero essere pari a 4.000 Gmc: piuttosto modeste. E anche se il territorio russo richiede ulteriori esplorazioni e potrebbe nascondere grandi sorprese, al momento manca la necessità economica per investire nella tecnologia necessaria alla produzione su larga scala.
Considerando il più ampio spettro del non convenzionale, già oggi in Russia si stima una produzione da tight gas pari a circa 20 Gmc. Sempre secondo la IEA, la produzione complessiva da non convenzionale è destinata a crescere molto lentamente, arrivando a 30 Gmc nel 2035. Le priorità russe di investimento sono altrove.
Nel complesso, l’interdipendenza tra gli Stati europei e la Federazione Russa sembra destinata a permanere anche nel futuro, creando una struttura di incentivi molto favorevole alla cooperazione, sia sul piano economico sia su quello politico. In questo quadro si inscrivono gli effetti di altre tendenze in atto nei mercati mondiali dell’energia: in particolare, la progressiva affermazione di fonti energetiche alternative agli idrocarburi e l’esplosione della domanda energetica cinese.
L’affermasi delle fonti rinnovabili potrebbe consentire nel lungo periodo una differenziazione dei panieri energetici europei e una riduzione del livello di dipendenza dalle importazioni, anche russe. L’aumento della domanda energetica cinese consentirà invece una differenziazione dei mercati finali per gli idrocarburi russi, riducendo il peso relativo delle vendite sui mercati europei. Complessivamente, dunque, la tendenza potrebbe essere quella di un allentamento dell’interdipendenza energetica russo-europea.
L’effetto combinato del mantenimento dell’interdipendenza e al contempo un suo allentamento a causa dell’evoluzione del contesto sarebbe una relativa attenuazione della dimensione di sicurezza legata in particolare agli approvvigionamenti europei di gas naturale russo. Questo potrebbe favorire un ulteriore sviluppo dell’aspetto economico della cooperazione, soprattutto per quanto concerne gli investimenti.
da Matteo Verda, Sicurezza energetica e politica estera. L’esperienza europea nel post-Guerra Fredda (2012, in pubblicazione)
Nord Stream II: 27,5 miliardi di metri cubi (Gmc). South Stream: 60 Gmc. Nabucco: 30 Gmc. Galsi: 8 Gmc. TAP: 10 Gmc. Rigassificatori: diverse decine di Gmc. I progetti di infrastrutture fioriscono, ma altrettanto non si può dire dei consumi di gas: secondo i dati Eurogas, l’associazione delle imprese europee del settore, i consumi europei continuano la loro altalena. 517 Gmc nel 2008, quando la crisi iniziava a fare capolino, 487 Gmc nell’anno orribile 2009, 522 Gmc nel 2010, quando si osava pensare che forse il peggio fosse passato, per poi tornare giù fino a 495 Gmc nel 2011.
Non il contesto ideale in cui realizzare infrastrutture che costano alcuni miliardi di euro, tra l’altro in gran parte da prendere a prestito, in un momento non certo felice per i mercati del credito. Tra gli addetti ai lavori, si è diffusa la consapevolezza che all’odore del gas spesso si è sostituito quello della naftalina, almeno fintanto che la situazione economica non tornerà ad essere prevedibile e almeno moderatamente positiva.
In questo contesto, fare previsioni diventa un’arte più difficile del solito: secondo lo scenario di riferimento IEA, i consumi europei al 2020 dovrebbero arrivare a 547 Gmc. Considerando il calo della produzione interna (da 188 a 155 Gmc, con un mancato boom del non-convenzionale europeo), la necessità di importazioni arriverebbe a 393 Gmc, ossia 52 più del 2010.
Nel frattempo, le infrastrutture che erano partite in tempi migliori, come il Nord Stream I e Medgaz, sono state concluse per forza di cose: da quei 52 andrebbero dunque tolti rispettivamente 27,5 e 8 Gmc. Resterebbero dunque 16,5 Gmc di nuova necessità di importazione da soddisfare di qui al 2020: tanti quanti un gasdotto (TAP o chi per esso) in arrivo dall’Azerbaigian e un po’ di nuova capacità di rigassificazione.
Con buona pace degli altri. Nabucco di naftalina puzzava già da un po’, ammesso che importare il gas iraniano sia mai stata un’idea vagamente fattibile. Per quanto riguarda i gasdotti dalla Russia, è possibile che Gazprom spinga per realizzare in ogni caso entro il decennio il Nord Stream II, ma è difficile immaginare che ci possa essere posto di qui al 2020 anche per altri 60 Gmc di South Stream. E questo senza considerare la questione degli investimenti necessari a garantire la relativa capacità di upstream.
In un contesto economico-finanziario particolarmente movimentato, è quindi probabile che sul fronte del gas per qualche anno di movimenti se ne vedano relativamente pochi, almeno per progetti a breve scadenza.
Slides relative alla lezione «La geopolitica dell’energia», parte del corso breve ISPI «La Russia nello scenario internazionale contemporaneo» (23-24 Marzo 2012).
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